Nel proprio nuovo romanzo “La leggenda dell’ulivo bianco” (Algra Editore), lo scrittore cosentino delinea un caldo ritratto della civiltà contadina arbëreshë e del rapporto padre-figlio
Sotto l’attuale dittatura del “politicamente corretto”, della globalizzazione, del multiculturalismo, sembrerebbe che i legami con la propria terra, con la propria cultura, nonché quelli parentali e virili (vedi La crisi dell’universo maschile secondo Éric Zemmour), debbano sparire. Di fronte a un futuro pianeta costituito da miliardi di persone tutte uguali, senza radici, bravi precari-consumatori, che importanza può avere ciò che è ancestrale, viscerale, come sangue e lingua, zolle e storia comune?
Per fortuna, c’è ancora chi mantiene ben vivo il contatto vivificante con le proprie radici, umane, famigliari e culturali. È il caso del narratore Domenico Gullo, residente nel Nord Italia, ma di origine calabrese, anzi arbëreshë. Per chi non lo sapesse, si tratta dell’antichissima minoranza etnico-linguistica dei cristiani albanesi fuggiti di fronte alla sanguinaria avanzata degli islamici turchi ottomani e riparati (dal XV secolo) in varie zone dell’Italia meridionale, tra le quali l’attuale provincia di Cosenza. Il nuovo romanzo di Gullo, La leggenda dell’ulivo bianco (Algra Editore, 2016, pp. 180, € 15,00), si sostanzia nel recupero delle proprie radici che il protagonista Michele Greco compie attraverso la rivalorizzazione del rapporto col padre Giovanni, contadino un tempo emigrato in Germania, ormai morente.
Il fatto che il personaggio Michele sia uno scrittore che vive in Emilia dimostra l’aspetto autobiografico della vicenda, che, tuttavia, assume connotati universali. Viene delineato, infatti, un affresco completo di una società e di una cultura, che sarebbe riduttivo definire semplicemente “contadina”. Usi e costumi, gastronomia e tradizioni popolari, relazioni umane e mestieri, si dipanano, soffusi di amore, incanto, rispetto. Sono evidenti i tempi più umani, più lenti, rispetto alla nevrotica frenesia odierna, di un mondo che forse è già scomparso. Sono i tempi, più cosmici, della natura.
E, difatti, essa fa da sfondo a tutte le vicende narrate ne La leggenda dell’ulivo bianco. Una natura aspra, ma forte, vitale, coinvolgente, che conquista tutti i sensi: «I rami erano pieni di frutti, alcuni grossi e maturi, altri piccoli, di un verde scuro e intenso. Staccò un grosso limone, ne grattò leggermente la superficie ruvida con l’unghia e l’avvicinò alle narici; l’intenso aroma, sprigionandosi, quasi lo inebriò. Il vento leggero si mise a scuotere i rami del grande gelso che produssero un lieve rumore, un sussurro delicato e prolungato, piacevole come una melodia malinconica». Peraltro, non si pensi a un rassicurante idillio. Il tono è piuttosto elegiaco: il romanzo è anche e soprattutto un monumento – non nostalgico tout court – alla civiltà contadina e ai suoi valori, anche attraverso il recupero della memoria storica, sociale e degli affetti personali.
Né manca, oltre all’altra tematica fondamentale della morte incombente, della malattia, del fine-vita, col dolore fisico e psicologico che comporta per il paziente e i parenti, la pressante, travolgente, tragica presenza della Storia con la “s” maiuscola, che trascina e sconvolge le esistenze degli umili con guerre, fascismo, violenze, oppressioni, migrazioni, lotte per la giustizia sociale. Gullo ha una straordinaria sensibilità nel delineare vicende, personaggi, paesaggi, ricreandone le atmosfere. Molte sono le pagine commoventi, tra le quali quelle finali.
È evidente che sia per la dimensione arbëreshë sia per le tematiche affrontate, Gullo si innesta lungo il solco tracciato dalla narrativa del noto Carmine Abate (vedi Per Carmine Abate è ancora “La festa del ritorno”; Il vento di Carmine Abate soffia sul Campiello). Tuttavia, La leggenda dell’ulivo bianco si caratterizza per alcuni evidenti accenti lirici, come si vede dal seguente brano: «Rimasero in silenzio fino a quando la fiamma del caminetto non divenne flebile e la legna si consumò, e anche allora non si mossero. Rimasero seduti uno accanto all’altro, di fronte al fuoco ormai spento, solo la brace ancora ardente illuminava un po’ le loro figure. La stanza rimase al buio, dalla finestra che dava sul portico si vedeva un pezzo di cielo nero, zeppo di stelle intorno alla luna nascente, talmente chiara e definita che, aprendo la finestra, la si sarebbe potuta toccare».
«Attorno a lei sembrava non ci fosse spazio per tutte le stelle, talmente erano fitte e luminose. Alcune grandi, altre minuscole e pulsanti, sembravano parlare fra loro. Forse erano lì perché la luna quella sera avrebbe letto dal libro del mondo una delle sue belle storie, quelle che si raccontano nelle sere chiare e silenziose, che durano a lungo, e che finiscono sempre bene». E anche il titolo del romanzo di Gullo, come ben spiega Franco Marchianò nella propria Prefazione al libro, cela dentro di sé una bellissima, poetica, mitologia popolare, la cui scoperta lasciamo al lettore.
Le immagini: la copertina del libro e lo stesso Domenico Gullo.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno XI, n. 130, ottobre 2016)