Nel racconto breve “Come catturare la morte”, il protagonista, assillato da una metafisica ossessione, compie un gesto apparentemente assurdo
Giovanni fu svegliato da un tonfo. Era il solito rumore di Adamo che cadeva a terra, come colpito da un fulmine. Adamo era il suo vicino, viveva solo ed era malato di cuore. Giovanni aveva le chiavi dell’appartamento per portargli eventualmente soccorso, cosa che aveva fatto già tre volte chiamando l’ambulanza non appena scorto il vicino per terra, più o meno rantolante. Adamo era poi sempre tornato dall’ospedale a casa come se niente fosse successo.
Questa volta, però, la cosa pareva più seria: entrato nella casa del vicino, Giovanni vide che il malato rantolava piano e non si contorceva per niente. Era probabile che la morte non avesse più intenzione di farsi ingannare: ecco un’occasione da non perdere. Giovanni rientrò nel proprio appartamento e prese il telefonino. Avvicinandosi poi ad Adamo, cominciò a filmare la sua agonia. Non lo faceva perché era un sadico (o almeno così diceva a se stesso), ma per apportare un contributo determinante alla conoscenza della morte. Anzi, l’avrebbe smascherata. Si trattava di cogliere l’attimo esatto e di immortalarlo – era proprio il caso di dire così. Si sarebbe potuto rivedere il filmato e analizzarlo con attenzione. Adamo, insomma, sarebbe stato sacrificato per la scienza. Comunque si vedeva che non sarebbe sopravvissuto: tanto valeva profittare dell’occasione!
Giovanni si concentrò sulla ripresa. Si accostò al volto del malcapitato, lo girò verso di sé per vederlo meglio, ricominciò a filmare avvicinandosi e allontanandosi dal respiro affannato e infine prese di mira con coraggio la bocca semiaperta, da cui certamente sarebbe entrata la morte e uscita l’anima. Di certo l’anima poteva andarsene, ma la morte non poteva sempre colpire senza essere vista. Giovanni l’immaginava come una forza in grado di spezzare l’osso del collo, agendo dall’interno. Se si lavorava sulle labbra, ormai quasi cianotiche, serrandole il più possibile, la morte avrebbe avuto difficoltà a entrare nel corpo e questo indugio forzato avrebbe consentito di rivelarne la presenza. La sua rapidità sarebbe stata impedita da un intervento dello straordinario osservatore, un osservatore capace di serrare il pertugio a tempo.
Giovanni era preso da questo esercizio e riteneva di riuscirci bene, nonostante l’ostinazione di Adamo nell’aprire la bocca: costui voleva respirare, non dare alla morte la possibilità di entrare con facilità. Giovanni voleva impedire all’infermo agonizzante di spalancare le fauci e non gli importava di danneggiarlo. Quando Adamo smise di opporsi, Giovanni cercò di scuoterlo. Non credeva ai suoi occhi. L’amico era stato colpito a tradimento. Forse la morte era entrata dalle narici e su di esse il telefonino non era stato puntato, altrimenti si sarebbe vista. Magari Giovanni sarebbe riuscito a prenderla al volo e a gettarla da un’altra parte (non dalla propria, ovviamente): in fondo era questo il suo sogno, la sua ambizione. Quando arrivò il soccorso, la morte aveva già fatto tutto ed era volata altrove, imprendibile, verso altri Giovanni, ansiosi di imprigionarla invece di esserne catturati.
Le immagini: due autoritratti (acquerelli su carta con tecnica mista) del 1910 del pittore austriaco Egon Schiele (Tulln, 12 giugno 1890 – Vienna, 31 ottobre 1918).
Dario Lodi
(LucidaMente, anno VII, n. 84, dicembre 2012)