Un insegnante di musica che non disdegna l’avvenenza femminile, nel racconto “Il vero piacere del professor Erminio” di Dario Lodi
Un giorno chiesero al professor Erminio quale fosse il suo piacere preferito. Era una risposta abbastanza facile per lui, in quanto aveva speso tutta la sua vita sui libri. Non aveva fatto altro che leggere e ancora continuava a farlo. Non lo faceva per mestiere (lui era un musicista), ma per piacere, appunto. Quanto piacere ne ricavava veramente? Beh, questo lui non lo sapeva con esattezza, ma, ripensandoci, si beava di sensazioni per così dire stampate nella mente. Altro non rivelava. Eppure Erminio altro avrebbe avuto da rivelare, ma forse non sarebbe stato capito.
Accanto all’attività intellettuale, primaria, il professor Erminio coltivava un piacere tutto suo. Era tutto suo per intensità e per disinvoltura, quasi fosse una cosa estranea, alla quale dava la massima approvazione. Era un consenso trasognato e non poco irrazionale, anche se in quella irrazionalità sussisteva una ragione enorme, quanto inafferrabile. Era una vacanza della mente, presa come in trance, ma una vacanza ordinata per bene, con acribia insuperabile.
Quando prendeva la pensione, il professor Erminio interrompeva per qualche attimo il rigido insegnamento musicale e invitava, dietro pagamento, una giovane allieva a mostrarsi per ciò che veramente era. La invitava a svelare il mistero della sua fisicità. Naturalmente era una specie di gioco inventato da lui, un gioco con piacevoli regole preparatorie. Il professor Erminio manteneva la sua freddezza, ma si meravigliava che, sotto sotto, un po’ di calore lo provasse. Eppure non era una novità. O così appariva lecito credere. La ragazza stava al gioco e si divertiva a sua volta nel vedere come quel maestro di vita andasse a imparare da lei cosa fosse la vita vera.
La giovane si sentiva un oggetto importante, che in verità diventava un soggetto determinante. Il professor Erminio, con calma olimpica e con precisione chirurgica, toglieva i vestiti alla ragazza e li poneva ordinati su una sedia. Poi si guardava dattorno come per controllare che nessuno lo spiasse. Non temeva una figura tale da perdere ogni stima nella propria intelligenza, bensì paventava che qualcuno interpretasse quella specie di rito come una debolezza e un’insulsaggine. Diciamo la verità: come poteva un professore tanto stimato perdersi dietro a una splendida ragazza, scambiando la carne per pensiero?
In realtà il professore non faceva certe confusioni, né gli importava di chiedersi se per caso fosse necessario porsi qualche problema in merito alla sua ambita decisione. Ormai le sue azioni erano come meccaniche. Tutto avveniva in perfetto silenzio. Non volava una mosca. La stanza era come pietrificata, i mobili ingessati. Il tavolo in mezzo alla stanza sopportava con qualche sbalordimento la scena che mensilmente, da un anno (ma chissà quanto ancora sarebbe durata quella cosciente perdizione), vedeva una ragazza nuda con le gambe aperte e penzoloni in balia di uno sguardo irriverente, proprio là…
Ogni tanto il professore sembrava cercare qualcosa, forse la vita ideale, assoluta, nascosta in fondo al tunnel. O forse esaltava la natura, beandosi delle meraviglie che con troppa superficialità e presunzione l’umanità trascurava. Gli piaceva immensamente questa seconda ipotesi e, dunque, provvedeva ad assecondarla con grande trasporto. Il suo sguardo indugiava a lungo sulla tornitura marmorea delle cosce e la visione d’insieme lo faceva sospirare come fosse in paradiso. La carnalità prendeva improvvisamente il sopravvento e il languore più vivo inondava il luogo, lo vivificava. Il professore, che pure si limitava a guardare e a controllare, anzi forse proprio per questo, provava un piacere da ubriaco. Un piacere immenso e incrollabile, che, però, era meglio non far sapere in giro…
Le immagini: Giove e Antiope (1715-1716, olio su tela, ovale 73×107, Parigi, Museo del Louvre) di Jean Antoine Watteau (Valenciennes, 10 ottobre 1684 – Nogent-sur-Marne, 18 luglio 1721) e L’origine del mondo (1866, olio su tela, 55×46 Parigi, Museo d’Orsay) di Gustave Courbet (Ornans 1819 – Vevey 1877).
Dario Lodi
(LucidaMente, anno VII, n. 82, ottobre 2012)