Intervento di Valerio Pocar: più che valore sacramentale o simbolico, è ormai strumento di garanzia per il coniuge più debole; uno scopo che potrebbe essere raggiunto anche in altri modi
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Il processo verso il riconoscimento delle individualità, che va accompagnando l’evoluzione della civiltà occidentale, per cui ciascun soggetto instaura, negoziando, rapporti tra liberi ed eguali, impronta le relazioni pubbliche e tocca finalmente anche la sfera delle relazioni private, zoccolo duro delle sudditanze e delle gerarchie legate a discriminazioni di genere e di età.
La riforma del diritto della famiglia del 1975, frutto di movimenti d’emancipazione che nell’attuale fase di restaurazione possiamo solo rimpiangere, ha rappresentato un passo significativo di un mutamento nel campo delle relazioni familiari, stabilendo la parità dei diritti e dei doveri dei coniugi, riconoscendo loro – novità rivoluzionaria che passò quasi inosservata – la facoltà di concordare l’indirizzo della vita familiare, dando spazio alla capacità di autodeterminazione (accordo e scelte autonome garantite dalla libertà di divorzio) e assicurando ai figli, nati dal e fuori del matrimonio, una posizione di soggetti e non di oggetti, per cui la potestà dei genitori venne a rappresentare un’assunzione di responsabilità.
La famiglia istituzionale, fondata sulla gerarchia degli status familiari in accordo a un modello pubblicistico di stampo autoritario, divenne una famiglia democratica, fondata su relazioni affettive e un progetto condiviso di vita comune, e le relazioni familiari si resero private, l’intervento della sfera pubblica restando riservato alla tutela dell’interesse e dei diritti dei minori. Il matrimonio stesso, in capo a un lungo processo di trasformazione, non venne più inteso dalla collettività come un’istituzione deputata a svolgere certe funzioni sociali e a garantire l’ordine sociale stesso, ma assunse il significato di uno spazio ove costruire una privata felicità e realizzare un progetto condiviso da liberi ed eguali. Oggi ciò è ovvio.
Se la relazione di coppia si fonda sulla negozialità e sulla condivisione di un progetto, ogni coppia e anzi ogni individuo deve poter ricercare i suoi modi specifici per realizzarlo, non necessariamente nelle forme stabilite dal matrimonio. Non per caso, anche se la coppia matrimoniale rappresenta tuttora l’opzione più frequente, una parte assai considerevole della popolazione italiana, seguendo tendenze riscontrabili in tutti i paesi occidentali, adotta altri modelli di convivenza. A chi e a che cosa, dunque, serve ormai il matrimonio, al di là del valore sacramentale, per chi ci crede, e del valore simbolico, per chi glielo vuole riconoscere, se non, dal punto di vista pratico, a garantire, per via del vincolo di solidarietà giuridica che instaura, il coniuge più debole nella rottura dell’unione, scopo che, peraltro, potrebbe conseguirsi, magari anche più efficacemente, in tanti altri modi?
L’accordo tra due individui, del medesimo o di diverso sesso, accordo privato ma opponibile alle parti stesse e ai terzi, dovrebbe consentire le garanzie che il matrimonio offre, senza però imporre ai partner un modello unico che si sovrapponga alle loro libere scelte. Non si tratterebbe di un ripiego per coloro che al matrimonio non vogliono o non possono accedere (ma tutti/e, volendolo, dovrebbero potere, indipendentemente dalle loro inclinazioni o scelte sessuali), ma, al contrario, di un modello di regolazione più elastico e più conforme alle aspirazioni di due individui che intendono realizzare il loro specifico progetto di vita, di uno strumento giuridico evolutivo e adeguato, più che non ormai il matrimonio, alla mutata realtà delle relazioni familiari.
Valerio Pocar – dall’archivio di NonCredo. La cultura della ragione, «volume bimestrale di cultura laica»
(LucidaMente, anno VIII, n. 90, giugno 2013)
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