A oltre un secolo dalla psicanalisi freudiana, per spiegare gli infanticidi, si resta legati a ingenui e sorpassati modelli idealistici, piuttosto che far riferimento ai concetti di Es e Super-Io
In Italia il 90% degli infanticidi avviene per mano delle stesse mamme. Nel mondo non va meglio: negli Stati Uniti si verificano ogni anno 500 casi determinati dalle forme depressive delle quali soffre la madre. In proporzione, in tutti i paesi occidentali i dati sono simili. E lasciamo perdere l’ecatombe di neonati che avviene in Cina, perché lì le motivazioni potrebbero essere diverse…
Insomma, esiste una sorta di sindrome di Medea. Gli antichi greci, in effetti, avevano “capito tutto” e non è un caso che la psicanalisi di Sigmund Freud abbia fatto riferimento ai loro miti – a cominciare dal famosissimo “complesso di Edipo” – per definire alcuni meccanismi profondi della nostra mente. Eppure, gli idealismi che ci provengono da tutta una chincaglieria cristiana, romantica e persino femminista, in una melensa e complice retorica madonnara, mammista ed “eroica”, tendono ancora a vedere, in particolare nella donna, un essere sempre benevolo, fragile, dolce, incapace di violenza, soprattutto verso i figli (il mito dell’amore materno…). Certo, le rivoluzioni della scienza e della medicina faticano a diffondersi tra le masse più o meno incolte. Ci son voluti secoli perché il popolo venisse a conoscenza e accettasse che la Terra girasse intorno al Sole. Oggi il cosiddetto “cittadino medio” accetta “il mito del progresso” e delle scoperte scientifiche, ma quanti sanno delle einsteiniane teorie della relatività o degli ultimi, stravolgenti, modelli cosmologici?
Tuttavia, è proprio la psicanalisi a incontrare le maggiori difficoltà a essere conosciuta, compresa e accettata. E, se le masse popolari, nella loro ignoranza, hanno il diritto di chiedersi “ma com’è possibile che una mamma…”, grave è che affermazioni simili siano pronunciate da magistrati (che spesso trattano anch’essi i casi di infanticidio in termini morali o di semplice codice penale) e soprattutto dai mass media (che però hanno l’intento di specularci sopra per ricavarne audience). Non sarebbe invece l’ora di finirla di vedere gli esseri umani e i meccanismi psicologici e sociali secondo una fiabesca ottica buonista? La verità è che il cosmo è violento (vedi il nostro Leggi dell’Universo, leggi della vita), la natura è violenta, l’esistenza è violenta, l’economia e la società sono violente. Ergo, anche l’essere umano (uomo e donna) è violento. Non perché è cattivo (e non lo miglioreremo né con commoventi quanto patetici fervorini, né chiudendo gli occhi dinanzi alla realtà) ma in quanto i meccanismi psicologici o, meglio, psicanalitici, sono quelli che sono.
L’infanticidio per mano di madre, in effetti, risulta talmente sconvolgente e abominevole, che quasi lo si vuole negare, rimuovere psicologicamente sia nella coscienza individuale, sia in quella collettiva. La madre, però, è una donna come le altre, un essere umano come gli altri. E, se Freud non si è sbagliato, la mente femminile, come quella di tutti gli esseri umani (uomini e donne), non è composta solo da un Io cosciente e razionale, ma da pulsioni fortissime e inconsce: l’Es, istinto vitale e naturale, arcaico, mosso dal soddisfacimento dei bisogni primari e dalla forza travolgente dell’eros, a volte aggressivo, e il Super-Io, costituito dai divieti, dalla morale, dall’educazione, dalle “idealizzazioni”. Il principio di piacere e il principio di realtà, quest’ultimo legato al disagio della civiltà. Beninteso, nell’inconscio non c’è il buono e il cattivo, il Bene e il Male: queste ultime sono solo costruzioni mentali culturali e “civili”. Sia dall’Es che dal Super-Io possono scaturire effetti gioiosi così come nefasti. Dalla dialettica inconscia – a volte tutt’altro che armonica – tra Io, Es e Super-Io, senza che ce ne accorgiamo, nascono i nostri comportamenti. Compresi gli infanticidi.
Non è straordinario che essi accadano. E, difatti, nelle fiabe, nella letteratura, nell’arte di ogni cultura, esistono figure di streghe malvagie, di assassine, delle quali la già citata Medea (Euripide, Ovidio, Draconzio, Pierre Corneille) è l’incarnazione più vivida. Riguardo tali crimini, «la psicoanalisi non è un tribunale della verità, ma può aiutarci a comprendere quello che per il senso comune e per la nostra ragione è incomprensibile» ha scritto Umberto Galimberti in Nella testa delle madri che uccidono i figli (la Repubblica, 13 dicembre 2014, p. 1, 38): «l’amore materno non è mai disgiunto dall’odio materno, dal momento che il figlio vive e si nutre del sacrificio della madre che, dal concepimento in poi, deve assistere alla trasformazione del suo corpo, al trauma della sua nascita e, successivamente, al sacrificio del suo tempo, del suo spazio, del suo sonno, del suo lavoro, della sua carriera, delle sue relazioni, dei suoi affetti e talvolta anche dei suoi amori». Che dire della depressione post partum?
E le sventurate infanticide neanche mentono quando affermano che non sono state loro. Certo non è stato il loro Io razionale, ragionevole, paziente, positivo. La realtà è negata a se stessa, prima che agli altri. Per la psicanalisi non si tratta della spesso “pietosa” rimozione (Verdrängung), attraverso la quale inconsciamente cerchiamo di allontanare da noi immagini o fatti intollerabili o inammissibili, ma della negazione (Verneinung) di ciò che è accaduto o si è commesso. Una negazione “sincera”. E che, purtroppo, spesso rappresenta la scissione dell’Io e dunque l’anticamera della follia.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno X, n. 109, gennaio 2015)