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Home VECCHI ARTICOLI ATTACCO FRONTALE

Mai più influssi mafiosi sul voto

Giuseppe Licandro by Giuseppe Licandro
16 Gennaio 2010
in ATTACCO FRONTALE
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I recenti fatti di Rosarno hanno messo in luce ancora una volta di più, se ve ne fosse stato bisogno, l’influsso nefasto della mafia nella società e nell’economia italiana. Il fatto che il comune calabrese teatro dei disordini – ma, ancor peggio, per anni scenario passivo dello sfruttamento, del degrado e della oggettiva messa in schiavitù di migliaia di migranti – fosse commissariato per infiltrazioni mafiose nel consiglio comunale la dice lunga sulla realtà di molte zone d’Italia. Cosa si può fare? Fare delle leggi e farle rispettare. Una per tutte, la cosiddetta “legge Lazzati”.
Questo articolo, per la sua importanza e rivolgendosi a tutte le forze parlamentari, viene pubblicato, in contemporanea, sia sulla nostra rivista che sul “Mensile di dibattito culturale e recensioni”
Bottega Scriptamanent (n. 30, febbraio 2010).

Secondo quanto emerge dal Rapporto Italia 2009 dell’Eurispes (istituto privato di studi politici, economici e sociali), «Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita hanno fatturato insieme, solo nel 2008, circa 130 miliardi di euro, con un utile che sfiora i 70 miliardi al netto degli investimenti e degli accantonamenti» (cfr. http://www.scribd.com/doc/11570329/Sintesi-Rapporto-Italia-Eurispes-2009).
Si tratta di cifre enormi, pari a circa il 9 per cento del Pil nazionale, frutto perlopiù di attività illegali che riguardano, oltre ai tradizionali affari illeciti (contrabbando, spaccio di droga, rapine, riscossione del “pizzo”, sfruttamento della prostituzione, usura), anche abusivismo edilizio, attività nel settore agroalimentare, gestione di appalti e di forniture di materiali, controllo dei giochi d’azzardo e delle scommesse, smaltimento dei rifiuti tossici e investimenti di vario genere in giro per il mondo.

I rapporti tra mafia e politica
Il problema della mafia, però, non può essere ridotto soltanto a una questione di ordine pubblico o d’illegalità presente all’interno delle attività economiche.
Esiste, infatti, un consolidato rapporto tra criminalità organizzata e settori inquinati della politica, come sta chiaramente a testimoniare il fatto che, dal 1991 a oggi, ben centottantacinque comuni italiani sono stati sciolti per infiltrazioni mafiose! E non tutti, sia chiaro, si trovano in Calabria, Campania, Puglia e Sicilia.
Roberto Scarpinato, procuratore aggiunto presso la Procura antimafia di Palermo, nel libro Il ritorno del Principe (Chiarelettere), scritto insieme a Saverio Lodato, ha evidenziato come «in Italia la storia nazionale è inestricabilmente intrecciata con quella della criminalità di settori significativi della sua classe dirigente».
Che le organizzazioni di tipo mafioso non rappresentino un corpo del tutto estraneo alle istituzioni politiche nazionali ne sono convinti anche Nicola Gratteri, sostituto procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, e Antonio Nicaso, i quali nel volume Fratelli di sangue (Luigi Pellegrini editore) sostengono che la ‘Ndrangheta «è nata in presenza dello Stato e non in sua assenza, con esso e non contro di esso».
E anche i membri del Parlamento italiano sono ben consapevoli che esista un problema di rapporti poco trasparenti tra alcuni settori del mondo della politica e le organizzazioni mafiose, come sta a testimoniare la Relazione conclusiva approvata il 19 febbraio 2008 dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare, nella quale, facendo riferimento al Codice di autoregolamentazione delle candidature, si legge quanto segue: «si impegnano i partiti affinché non candidino chi si trova in una condizione di compromissione sul piano della legalità antimafia, nello specifico, i soggetti già rinviati a giudizio per tutti i reati collegabili alla mafia, per i reati di estorsione ed usura, di traffico di sostanze stupefacenti, di traffico illecito di rifiuti e tutti i soggetti sottoposti a misure di prevenzione personale e patrimoniale» (cfr. http://www.camera.it/_bicamerali/nochiosco.asp?pagina%3D/_bicamerali/leg15/antimafia/home.htm).
Ci pare, purtroppo, che il Codice di autoregolamentazione delle candidature sia rimasto in taluni casi lettera morta, stando almeno a quanto ha recentemente affermato in una trasmissione radiofonica il procuratore capo di Napoli, Giandomenico Lepore, il quale, in risposta a una domanda sul numero di politici campani collusi con la camorra, ha affermato: «Non mi faccia dare cifre, ma secondo me un 30 per cento» (cfr. http://nonhopaura.blogspot.com/2009/04/giandomenico-lepore.html).

Il Centro studi “Giuseppe Lazzati”
All’inizio degli anni Novanta, Romano De Grazia, oggi magistrato in pensione, ha fondato a Lamezia Terme (Cz) il Centro studi regionale “Giuseppe Lazzati”, che si è sempre battuto per il riscatto sociale e la promozione culturale della Calabria.
L’associazione lametina è intitolata a una delle figure più importanti del panorama intellettuale italiano del Novecento, Giuseppe Lazzati, che fu docente universitario e diresse l’Università cattolica di Milano dal 1968 al 1983.
Nel 1992 il Centro studi si è fatto promotore di una proposta di legge d’iniziativa popolare (con la collaborazione di Luigi Fornari e Mario Alberto Ruffo, docenti dell’Università “Magna Grecia” di Catanzaro) che mira a eliminare il paradosso giuridico secondo cui un delinquente sottoposto al regime di sorveglianza speciale, pur non potendo votare e non potendo essere eletto, può comunque partecipare alla campagna elettorale in favore (o a discapito) di un partito o di un candidato. L’intento della legge è quello di contrastare alla radice il malcostume del “voto di scambio” tra politici e mafiosi che finisce talvolta per stravolgere il valore democratico delle elezioni, soprattutto laddove imperversa la criminalità organizzata.
Per diciassettenne anni, tuttavia, il disegno di legge “Lazzati” è rimasto insabbiato nei meandri della burocrazia parlamentare, rimosso da una classe politica distratta, impelagata dapprima nel trapasso tra la Prima e la Seconda Repubblica, poi alle prese con le beghe tra (e dentro) le coalizioni che hanno caratterizzato l’ultimo quindicennio della storia italiana.
Nella legislatura in corso, grazie al contributo bipartisan di vari deputati (tra cui Franco Amendola, Rosa Calipari, Cinzia Dato, Doris Lo Moro, Angela Napoli, Roberto Occhiuto, Nicodemo Oliverio, Leoluca Orlando, Sabina Rossa, Mario Tassone), il disegno di legge è stato ripresentato alla Commissione giustizia della Camera, che lo ha approvato all’unanimità ai primi di dicembre del 2009.
La proposta di legge è passata ora al vaglio del Senato, che dovrebbe votare il testo senza apporvi modifiche in modo da accelerare l’iter per la sua definitiva approvazione, permettendone l’entrata in vigore prima delle elezioni amministrative fissate per la prossima primavera.

I tre articoli della legge “Lazzati”
Ma vediamo nel dettaglio cosa prevede il disegno di legge “Lazzati”, costituito da tre soli articoli, aventi come oggetto il divieto di propaganda elettorale per le persone che appartengono ad associazioni mafiose e sono sottoposte alla misura preventiva della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza.
Articolo 1: «Alle persone indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni comunque localmente denominate che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelle delle associazioni di tipo mafioso, sottoposte alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza è fatto divieto di svolgere propaganda elettorale in favore o in pregiudizio di candidati e simboli, con qualsiasi mezzo, direttamente o indirettamente».
Articolo 2: «Il sottoposto a sorveglianza speciale di p. s. che, trovandosi nelle condizioni di cui all’art. 1, propone o accetta di svolgere attività di propaganda elettorale, e il candidato che la richiede o in qualsiasi modo la sollecita sono puniti con la reclusione da uno a sei anni».
Articolo 3: «Con la sentenza di condanna il Tribunale dichiara il candidato ineleggibile per un tempo non inferiore a cinque anni e non superiore a dieci e, se eletto, l’organo di appartenenza ne dichiara la decadenza. Il Tribunale ordina, in ogni caso, la pubblicazione della sentenza di condanna ai sensi dell’art. 36 commi 2, 3 e 4 c.p. ed in caso di ineleggibilità la trasmissione della sentenza, passata in giudicato, al Prefetto della provincia del luogo di residenza del candidato per l’esecuzione del provvedimento».
Rispetto alla normativa vigente in relazione al cosiddetto “scambio elettorale politico-mafioso” (art. 416-ter del codice penale), la legge “Lazzati” introdurrebbe strumenti più efficaci per contrastare il connubio tra mafia e politica.
Finora, infatti, si può perseguire soltanto un candidato che abbia comprovatamente elargito soldi a un mafioso in cambio di voti, mentre non è sufficiente dimostrare che ha usufruito del suo appoggio elettorale senza pagare.

Una norma per molti versi innovativa
Riteniamo molto importante che la proposta di legge “Lazzati” preveda il divieto per i mafiosi di svolgere propaganda elettorale (a favore o contro qualcuno) “con qualsiasi mezzo, direttamente o indirettamente”: ciò significa, infatti, che nemmeno per interposta persona un boss potrà tentare di influenzare l’elettorato, cercando di celarsi dietro qualche “picciotto” non ancora inquisito.
Così come ci pare rilevante che si sia stabilita una pena variabile da uno a sei anni solo per la semplice propaganda elettorale svolta da un mafioso sottoposto a regime di sorveglianza (anche senza comprovato pagamento in denaro) e che un’eventuale sentenza di condanna non solo renda ineleggibile per un certo tempo il candidato sostenuto dalla criminalità organizzata, ma ne imponga anche l’immediata decadenza nel caso in cui sia stato già eletto.
Certo, si potrebbe obiettare che l’applicazione della legge troverà ostacoli forse insormontabili laddove il sistema politico-mafioso è ben oleato e dipana i suoi tentacoli all’interno di strutture coperte, potendo contare sull’omertà di chi dovrebbe sorvegliare e non lo fa. Ancora, si potrebbe eccepire che il politico condannato per aver usufruito dei voti della mafia potrà comunque ricandidarsi dopo un periodo di tempo, variabile, a seconda dei casi, tra cinque e dieci anni, non essendo prevista dalla legge “Lazzati” l’interdizione perpetua dalle cariche pubbliche.
Si tratta, in ogni caso, di una norma innovativa che, a detta di tutti, creerebbe sicuramente notevoli difficoltà alle cosche mafiose che vogliono infiltrarsi dentro le istituzioni o che tentano di condizionare la volontà degli elettori, offrendo alla magistratura uno strumento assai efficace per reprimere la piaga dello “scambio elettorale politico-mafioso”.
Attendiamo, quindi, con impazienza la discussione della legge che si terrà al Senato, sperando che le forze politiche non cedano ancora una volta alla tentazione di bloccare tutto, in nome di una disarmante realpolitik che minaccia di distruggere le stesse fondamenta della democrazia italiana!

La lotta contro la mafia
Sembra che una nuova stagione si sia aperta nella lotta contro la criminalità organizzata, forse perché la stessa classe politica si sta rendendo conto che la tolleranza dei fenomeni criminali alla lunga non paga e che non ci sono “trattative” che possano indurre i boss mafiosi a moderare le pretese e a rispettare le regole della convivenza civile. Certo, è presto per cantare vittoria: già in passato “la piovra” è sembrata alle corde, ma si è sempre ripresa, potendo contare sulla connivenza di settori deviati dello stato e sulla sottovalutazione di una parte degli organi inquirenti (basti pensare che negli anni Ottanta si sentiva ripetere ancora, anche a livello istituzionale, l’antico adagio: “La mafia non esiste”).
L’auspicio è che la battaglia contro la criminalità organizzata, portata avanti negli anni da integerrimi giornalisti, magistrati, politici, rappresentanti delle forze dell’ordine, sindacalisti e da tanti onesti cittadini, continui senza sosta e che non cada mai nel dimenticatoio l’esempio di uomini come Paolo Borsellino, Rocco Chinnici, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giuseppe Diana, Giovanni Falcone, Giuseppe Fava, Francesco Fortugno, Rocco Gatto, Giuseppe Impastato, Pio La Torre, Giuseppe Puglisi, Placido Rizzotto, Antonino Scopelliti, Giancarlo Siani e di tanti altri meno famosi, vittime innocenti della violenza criminale.
Ci auguriamo, infine, che si faccia piena luce quanto prima sul groviglio di torbide relazioni politico-mafiose che ha caratterizzato la fine della Prima Repubblica, con la stagione stragista di Cosa nostra che ha contribuito a mettere in ginocchio, insieme alla concomitante inchiesta giudiziaria Mani pulite, le forze politiche allora dominanti, determinando la fine del sistema dei partiti nato nel Secondo dopoguerra e l’avvento di una nuova fase storica, contrassegnata dal bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra, i cui esiti attuali, tuttavia, non ci appaiono per nulla confortanti.

L’immagine: murale che ritrae i magistrati Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, simboli della lotta alla mafia, disegnato sui muri dell’Università della Calabria (Arcavacata di Rende, Cosenza).

Giuseppe Licandro

(Lucidamente, anno V, n. 50, febbraio 2010)

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Tags: agroalimentareappaltiborsellinocalabreseCalabriacampaniacosa nostraeconomia italianaeurispesfalconegioco d'azzardoillegalitàitaliamafiaordine pubblicopilpoliticapugliarosarnosacra coronasiciliavoto di scambio
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