Non si condanna abbastanza? Anche troppo! E a “pagarla” sono solo i poveracci…
Alberto Sordi, interprete nel corso della sua lunga carriera di numerosi e coloriti personaggi cinematografici che hanno incarnato i pregi civili (pochi) e i difetti (molti) degli italiani, fu protagonista nel 1971 del film Detenuto in attesa di giudizio (diretto da Nanni Loy) e nel 1984, autodirigendosi, di Tutti dentro.
Nella prima opera un onesto italiano (il geometra Di Noi), tornato nel Belpaese dopo sette anni passati in Svezia, finisce in carcere per errore, subendo dal potere giudiziario-carcerario violenze di ogni tipo, da quelle burocratiche a quelle fisiche. Nella seconda lo zelante giudice Salvemini intende far piazza pulita senza pietà dei corrotti ma finisce per essere anche lui inquisito.
L’attuale stato della giustizia italiana: un’ultracasta?
Oggi, sono passati decenni, ma le due situazioni narrate nei film sopra citati sembrano rappresentare i due estremi punti di oscillazione della situazione della giustizia nel nostro Paese. Da un lato, il cittadino che, se incorre in un procedimento – civile o penale –, deve sopportare lungaggini inumane da parte del meccanismo giudiziario; dall’altra, la categoria dei magistrati, sospesa tra la fiducia e la sfiducia dei cittadini italiani.
Fiducia? Secondo l’Eurobaromentro, quella dell’opinione pubblica italiana nei confronti dei magistrati è scesa dall’83,4% dei tempi di Tangentopoli all’attuale 31%.
Uno stipendio più alto di quello dei colleghi europei, sentenze scandalose, una possibilità molto bassa (2,1%) di incappare in sanzioni disciplinari, guadagni extra, 51 giorni di ferie all’anno, assenteismo, avanzamenti attraverso concorsi benevoli (il 99,6% è promosso). Queste alcune delle denunce della firma de L’espresso Stefano Livadiotti – già autore de L’altra casta. L’inchiesta sul sindacato (Milano, Bompiani, 2008, pp. 236, € 15,00) – nel suo Magistrati. L’ultracasta (Milano, Bompiani, 2009, pp. 260, € 17,00).
Tanti giudici, dagli eroi ai… “kafkiani”!
Ma chi sono i magistrati italiani – inquirenti e giudicanti –, umanamente e professionalmente?
Proviamo a immaginarne alcune categorie:
1. gli “eroi”, che compiono il proprio dovere fino all’estremo sacrificio (es.: Falcone, Borsellino, Scopelliti);
2. i “retti”, che si scontrano con l’arroganza della casta politica e la sua pretesa di impunità (es.: Forleo, De Magistris);
3. gli “anonimi”, che svolgono il proprio dovere fuori delle luci della ribalta, con dedizione, professionalità e autentico senso di giustizia e comprensione umana (vedi sentenze Riccio-Welby ed Englaro).
4. gli “impiegati”, che tirano avanti, tanto per lo stipendio, senza molta passione e attenzione ai casi dei quali si occupano;
5. i “superficiali”, che giudicano con sentenze “sbrigative”, fuori da ogni logica giuridica e senso comune di giustizia;
6. i “protagonisti”, che emettono sentenze assurde, eccessive, “a effetto”, “a sorpresa”, tanto per comparire sulle pagine dei giornali;
7. i “kafkiani”, che gettano cittadini evidentemente innocenti in una situazione di estrema angoscia con accuse assurde, procedimenti sfiancanti, condanne aberranti.
L’ingiustizia quotidiana
Al di là delle tipologie 1 e 2, che rappresentano le eccezioni, il fatto che la stampa, se a un cittadino viene anche solo inviata un’“informazione di garanzia”, scriva che egli “è finito nei guai” e il fatto che ogni cittadino italiano onesto, di fronte a un procedimento penale, ma anche a una causa civile, viva una situazione di estrema, progressiva, ansia e sfiducia, anzi di disperazione ante eventum, palesa che, probabilmente, le tipologie 6 e 7 siano quelle “maggioritarie”.
E non c’è nulla di più facile di essere sottoposti a indagini e rinvii a giudizio senza neanche accorgersi del perché.
Così, abbiamo i casi dei bambini sottratti alla famiglia perché uno dei due avrebbe fatto un disegnino osceno (in realtà opera di un suo compagno); del giovane denunciato con l’accusa di favoreggiamento della prostituzione per aver accompagnato in macchina una prostituta; della donna ammalata di cancro condannata per aver fumato uno spinello con lo scopo di lenire il dolore; del ragazzino tolto alla tutela della madre divorziata e affidato al padre perché la prima gli consentiva di frequentare «circoli sovversivi dove si eccede in vizi, droga e alcool»… cioè Rifondazione comunista!
E, ancora: delle piccole aziende fallite per le multe dovute a qualche mancato adempimento fiscale non effettuato, nel marasma delle tassazioni, per vera dimenticanza o errore; dell’impegatuccio divorziato nullatenente cui vengono tolti la casa e l’intero stipendio per pagare gli alimenti alla ex moglie benestante e avvocato e ai figli nullafacenti che se la spassano; degli uomini accusati di violenza sessuale per aver fatto un complimento a una donna!; degli imputati scopertisi innocenti dopo 20 anni!; delle facili accuse di pedofilia in famiglia; del cittadino cui si ritira patente e si sequestra la macchina perché investito di rimbalzo da un’altra vettura che ha provocato un incidente mortale; dell’insegnante condannato e licenziato per “resistenza a pubblico ufficiale” per aver difeso dalle manganellate una manifestante al G8 di Genova, dopo aver collezionato una condanna analoga trenta anni prima durante i “periodi caldi” durante i quali le manifestazioni e gli scontri studenti-forze dell’ordine erano quotidiani…
I cavalli di battaglia della stampa e della politica: la “sicurezza” e la presunta “impunità”
Due strategie hanno perseguito la stampa di destra (ma non solo) e alcune forze politiche (in primis la Lega Nord) al fine di gettare panico nell’opinione pubblica e distoglierla da problemi ben più gravi (epocale crisi economica, disoccupazione, corruzione dilagante, ambiente inquinato, ecc.).
La prima: cavalcare un problema-“sicurezza” più immaginario, percepito soggettivamente, indotto (leggi sbattere il mostro in prima pagina: quasi sempre un “violentatore” straniero) che reale (ci sono più omicidi negli altri Paesi che in Italia), per cui si è data origine e rafforzata la ”convinzione” che siamo circondati da orde di pericolosissimi criminali. La seconda: enfatizzare l’attenzione su alcuni pochissimi casi-limite di “impunità”, per persuadere gli italiani che “tutti la fanno franca”, che “nessuno va in galera”, che “il criminale esce dopo pochi giorni”.
La realtà è ben diversa: carceri sovraffollate; repressione molto alta e norme in cantiere sempre più negatrici delle libertà personali e individuali e perfino dei diritti umani (vedi recente legge che ritiene già un reato essere immigrato clandestino); un controllo capillare di ogni attività privata degli italiani (vedi intercettazioni telefoniche); la sicurezza stradale usata come forma extra di tassazione; un fisco rapace e onnipresente; la lungaggine abnorme dei processi non solo civili, ma anche penali. Quello che forse è peggio, una miriade di leggi e regolamenti, di obblighi, spesso di non facile interpretazione, applicazione, attuazione. E laddove c’è l’ambiguità della norma, si lascia enorme spazio alla discrezionalità, e laddove c’è la discrezionalità, c’è il rischio di arbitrarietà, arbitrio, quando non di “ricatto”, da parte degli apparati di polizia e giustizia.
Inoltre, a ogni “emergenza” si reagisce con inasprimenti della pena “abnormi”, come se fosse un deterrente far trascorrere a un individuo 10 invece che 6 anni di carcere e avesse un senso non offrire alcuna possibilità di recupero e reinserimento.
Proibizionismo, proibizionismo!
L’attuale governo, autodichiaratosi “liberale”, avrebbe dovuto allargare i diritti di libertà, i diritti civili, individuali, personali, dei cittadini. Invece, si assiste a un garantismo valido solo per la casta e i potenti, mentre il cittadino comune o addirittura svantaggiato, come i migranti, viene lasciato in balia di un apparato proibizionistico, disumano e repressivo che non ha eguali nel mondo occidentale.
Altro che “Stato leggero!”.
E si va avanti con leggi liberticide, col folle proibizionismo (nulla ci hanno insegnato gli Usa degli Anni Venti?), con la persecuzione dei deboli e delle minoranze, con uno stato sempre meno laico, in cui la distinzione tra “peccato” e “reato” sembra farsi sempre più sottile.
Intanto le trasmissioni televisive, i mass media, si occupano solo, esagerando, degli omicidi tipo Cogne o Novi Ligure o Alba o Perugia, che sono eccezioni nella normale attività delle procure.
Carceri strapiene, ma non dei peggiori delinquenti…
Mentre pensate in quale disgrazia giudiziaria vi siete imbattuti o potreste imbattervi, le patrie galere sono stracolme di carcerati, al di là di ogni limite e rispetto della dignità umana, a tal punto che si pensa di costruirne molte altre o di “alleggerirle” grazie ad amnistie, indulti, ecc.
I miei amici penalisti o magistrati mi hanno sempre confidato: «In carcere, a star male, nel corso degli anni, ho visto finire solo i poveracci, quelli senza bravi avvocati. Mai un potente o un vero, pericoloso criminale».
Ricordiamo che LucidaMente si è già occupata di “malagiustizia”. Cfr., tra l’altro, due recensioni di libri sull’argomento: Loretta Scipioni, Quando le istituzioni umiliano il cittadino, e, su uno dei casi più eclatanti, Erika Casali, La malagiustizia ed Enzo Tortora.
L’immagine: Ritratto di dottore (Il magistrato) (1560, olio su tela, cm 116×91,5, Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia) di Giovanni Battista Moroni (Albino, Bergamo, 1520 circa – Bergamo, 1579).
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno IV, n 45, settembre 2009)
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