L’11 marzo 2016 esce il secondo disco (“Albore”, per l’etichetta tedesca Agogo Records) del musicista marchigiano, stavolta assieme con la Rhabdomantic Orchestra. Dieci composizioni affascinanti e sofisticate
Una voce particolare e una musica raffinata che ci trascinano in giro per il mondo, in fumosi locali dalla dubbia fama, dove si aggirano ambigue presenze e nascono amori esotici e insidiosi, che, con ogni probabilità, ci condurranno alla completa rovina.
È lo scenario entro il quale ci piace collocare il nuovo disco (Albore) di Manuel Volpe, che uscirà il prossimo 11 marzo per l’etichetta tedesca Agogo Records, ovvero una garanzia di qualità. Sono passati tre anni dall’esordio solista (Gloom Lies Beside Me As I Turn My Face Towards The Light) dell’autore marchigiano, nato a Jesi nel 1998. Stavolta, invece, per il suo nuovo lavoro, il vocalist ha creato attorno a sé un ensemble, Manuel Volpe & Rhabdomantic Orchestra. Uno splendido raggruppamento di ben tredici giovani quanto talentuosi musicisti, fondato nel 2014 a Torino dallo stesso Volpe: una ricchissima varietà di strumenti, “classici” e insoliti, suonati con classica perizia e sinuosa originalità. Nelle dieci tracce del cd si assiste così al prodigio del perfetto connubio tra la voce seducente, profonda, quasi roca e maudit alla Nick Cave, del cantante e i ritmi caldi e sensuali degli “orchestrali”.
Nell’insieme, un affascinante impasto di sonorità pressoché indefinibili, visto che esse attingono, in modo libero e originale e con una continua operazione di ri-creazione, a sonorità jazz e mediterranee, cantautorali e mediorientali, esistenziali e world music, psichedeliche e arabeggianti, intimistiche e popolari, “confidenziali” e africane (in particolare le poliritmie degli yoruba, gruppo etnico diffuso in Nigeria e paesi limitrofi). Un eclettismo che sa di portentoso, un equilibrio miracoloso soprattutto se consideriamo anche che le musiche non sono subordinate al testo, né il testo alle musiche.
Una spiritualità vicina al misticismo si fonde con una materialità corporea, in una sinestetica esaltazione ascetico-sensuale – ci sia consentito l’ossimoro. A nostro avviso, la composizione più bella di Albore è la quinta, Maatkara: da un semplice inizio di fiati, si perviene, attraverso sottili variazioni musicali e ipnotici ritmi, a un percorso magico verso il nulla, o verso l’intuizione del tutto. Gli altri nove brani? Si passa dalla fluida e misurata melodia della prima traccia, con spunti jazzistici, che dà il titolo all’intero album, al quieto andamento di Atlante. Basrah seduce coi suoi ammalianti suoni provenienti dal vicino Oriente. Nostril è anche un suggestivo videoclip che racconta di un africano e di altri volti in una grigia quanto fascinosa Torino in bianco e nero.
Visionario e quasi psichedelico intermezzo è la sesta traccia, Betel, brevissima e solo strumentale. Danzante è Rhabdomancy. Multiforme, ricco di riprese, variazioni, spezzature anche inquietanti, è Reveal: un caos di morte e rinascita? Il penultimo pezzo, Whorf, solo strumentale, è dedicato al linguista americano Benjamin Lee Whorf (1897-1941). Come ci informa lo stesso Volpe, egli affermava che «la lingua madre di ogni individuo influenza (se non determina) le sue capacità di pensiero e la propria visione del mondo». Il nostro percorso si conclude con Wheat Field, valzer-ninnananna; in apparenza ti culla come un dolce sogno, ma in esso è presente il freudiano perturbante; ciò che è familiare può assumere un aspetto estraneo, inatteso, spaventoso, generando confusione e angoscia. Buon viaggio a tutti gli ascoltatori di Albore.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno XI, n. 123, marzo 2016)
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