“Il cuore gli batteva a grandi colpi; […] era pervaso da una certa tenerezza per quel corpo che lo aveva servito bene, che avrebbe potuto vivere, tutto considerato, ancora una ventina d’anni, e che distruggeva così, senza potergli spiegare che in quel modo gli risparmiava mali peggiori e più indegni. […] Il sangue della vena tibiale ormai usciva a tratti: a fatica, come chi solleva un peso enorme, riuscì a spostare il piede per farlo pendere fuori dal letto. […] L’indomani avrebbero bruciato un cadavere. […] Come non molto tempo prima a San Cosma, nel corridoio risuonarono passi precipitosi: era il carceriere che aveva notato sul pavimento una chiazza nerastra. Un momento prima il terrore avrebbe afferrato l’agonizzante all’idea di esser ripreso e costretto a vivere e a morire qualche ora di più. Ma l’angoscia ormai era cessata: era libero […]. Non oltre è dato andare nella fine di Zenone”.
(da L’opera al nero, traduzione di Marcello Mongardo e Gabriella Cartago, Feltrinelli, 1986)
Marguerite Yourcenar
LA RILETTURA
Istituita nel XII secolo come tribunale ecclesiastico, l’Inquisizione operò nel Basso Medioevo per contrastare la diffusione delle eresie e, agli inizi dell’Età moderna, fu ricostituita in Spagna contro i marranos (gli ebrei convertiti al cristianesimo) e i moriscos (i musulmani sopravvissuti alla Reconquista cristiana).
Nel 1542 venne creata l’Inquisizione “romana”, che, alle dipendenze della Congregazione del Sant’Uffizio, perseguitò i protestanti, i liberi pensatori (Giordano Bruno, Tommaso Campanella) e gli scienziati copernicani (Galileo Galilei).
Solo durante il concilio Vaticano II (1962-1965) l’assurdo tribunale fu abolito.
Purtroppo, anche ai giorni nostri sembra ritornato un pesante clima di intolleranza religiosa, come testimoniano gli anatemi scagliati ripetutamente dalla Chiesa contro chi non condivide le sue scelte etiche.
La persecuzione di un libero pensatore – Delle persecuzioni inflitte dall’Inquisizione a eretici e libertini ha parlato Marguerite Yourcenar (1903-1987) nel suo romanzo del 1968 L’oeuvre au noir (L’opera al nero, Feltrinelli), da cui è stato tratto l’omonimo film diretto da Andrè Delvaux, con Gian Maria Volontè (1988). La Yourcenar, letterata franco-belga naturalizzata statunitense, è nota soprattutto per le Mémoires d’Hadrien (Memorie di Adriano, Einaudi), il suo capolavoro, scritto nel 1951 sotto forma di autobiografia apocrifa del grande imperatore romano. L’opera al nero è, in ordine d’importanza, il suo secondo romanzo e rappresenta un’incursione nel clima, fosco e intollerante, del Cinquecento, quando i conflitti religiosi riaccesero la triste sequela dei processi agli eretici e alle “streghe”. Infatti, il protagonista della storia (Zenone) è un intellettuale, perseguitato per le sue idee, dietro il quale si scorge la figura di Zenon Ligre, medico e studioso francese vissuto nel XVI secolo, che, accusato di stregoneria, morì suicida in carcere, poco prima di essere arso sul rogo.
La trama del romanzo – Zenone, originario di Bruges, decide al termine degli studi di girovagare per il mondo, impegnandosi in molteplici occupazioni e dedicandosi, soprattutto, alla pratica della medicina e dell’alchimia: dopo aver subito alcune condanne per eresia, riesce a sottrarsi all’arresto, assumendo un falso nome. Ritornato nella città natale, egli incontra il saggio priore del convento dei Cordiglieri, che lo fa assumere come medico nell’ospizio del monastero. E’ a questo punto che in Zenone si compie l’alchemico opus nigrum, ovvero una trasmutazione corporale che lo rende, temporaneamente, del tutto impassibile a ogni sorta di dolore, consentendogli di dedicarsi con maggiore proficuità alle sue attività. Ma la morte del priore – che lo aveva sempre protetto – e uno scandalo, in cui viene ingiustamente coinvolto, segnano la sua sorte. Dopo aver svelato la sua vera identità, egli è processato per stregoneria ed eresia, venendo condannato a morte: resosi conto di aver perso l’insensibilità alla sofferenza, decide di suicidarsi in carcere e, la sera prima che la sentenza sia eseguita, si svena.
Un atto libertario – I brani riportati, tratti dalla parte conclusiva de L’opera al nero, raccontano il freddo suicidio del protagonista e spiegano le ragioni di chi, compiendo un atto di libertà, preferisce un trapasso rapido a una lenta e più atroce agonia (ci viene spontaneo il riferimento all’eutanasia…). Oltre a ciò, ci sembra che la Yourcenar abbia voluto anche condannare (soprattutto con la frase “l’indomani avrebbero bruciato un cadavere”) lo spettacolo disgustoso dell’esecuzione capitale, di cui il potere ottuso e sanguinario si compiace. E la mente corre subito a quegli stati incivili che fanno ricorso ancora oggi alla pena di morte, ostinandosi a tramandare una pratica barbara, che non serve a scongiurare il male dal mondo, ma anzi a perpetuarlo. Su tale argomento, Umberto Eco ha giustamente scritto che: “Mica lo Stato vuole uccidere qualcuno perché gli è antipatico. Mica lo uccide perché non commetta più crimini […]. Lo uccide per educare gli altri, perché si impari che a uccidere si muore: e quindi lo uccide come messaggio, ovvero come mezzo invece che come fine. Per questo la pena di morte è un delitto” (L’uomo come fine, ne L’espresso, n. 3, 2007).
L’immagine: la copertina del libro della Yourcenar.
Giuseppe Licandro
(LucidaMente, anno II, n. 18, giugno 2007)