Eugenio Capozzi in “Innocenti evasioni” (Rubbettino) contesta il mito del rock come veicolo di contestazione
Sesso, droga e rock’n’ roll? Peace, not war? Contestazione del potere? Ribellione generazionale? Trasgressione? Bene, se avete tali idee ben consolidate, rischiate di doverle mutare, sentendovi un po’ dei poveri illusi ingannati. Soprattutto se leggerete Innocenti evasioni. Uso e abuso politico della musica pop (1954-1980) di Eugenio Capozzi. Il libro – edito da Rubbettino (pp. 186, € 14,00) – uscito da pochi giorni, contesta (è proprio il caso di usare tale termine) un mito duraturo e tanti luoghi comuni.
L’idea che «la musica “giovanile” del secondo Novecento sia stata fin dalla sua origine espressione di una ribellione delle nuove generazioni all’establishment politico, economico e culturale “borghese” occidentale» non ha alcun fondamento storico. Questa l’idea di fondo di Capozzi, secondo il quale il rock, inteso come musica della ribellione, dell’“autenticità” e della spontaneità creativa (giovanile) non esiste, è solo un potente mito costruito da una parte degli “ex giovani” vissuti attraverso un periodo di rivolgimenti generazionali nei paesi occidentali (tra la seconda metà degli anni Sessanta e gli inizi del decennio successivo). Perché ciò è avvenuto? Perché si è inteso assolutizzare, nobilitandola, una stagione della propria vita, e di accreditare l’idea che la cultura di massa di cui essi sono stati fruitori fosse meno “massificata” di quella delle altre generazioni e dei loro coetanei non politicizzati.
All’inizio i testi del rock’n’roll parlavano soltanto di amore adolescenziale, festa e divertimento, in uno spirito totalmente edonistico. La “ribellione” dei rockers era essenzialmente insofferenza alle regole rigorose di comportamento delle generazioni precedenti. Paradossalmente si può dire che per certi aspetti i giovani rock’n’rollers erano più integrati con il “sistema” rispetto ai loro genitori, in quanto il loro vitalismo edonistico assecondava le tendenze del capitalismo industriale.
Soltanto a partire dalla metà degli anni Sessanta, il rock (più ampiamente pop) si farà espressione di contenuti di ribellione antisistema, abbracciando l’insofferenza dei baby boomers occidentali verso i sistemi di potere in cui si trovavano a vivere. I giovani che avevano vissuto la guerra da bambini avevano ottenuto, celebravano e lasciavano ai loro fratelli minori il tempo libero, per la prima volta alla portata praticamente di tutti i ceti. I baby boomers scoprivano ora però che lo svago non bastava alle loro aspirazioni, e cominciavano a reclamare l’abolizione di ciò che ancora rimaneva degli obblighi istituzionali, dei doveri, delle gerarchie, ereditati dalle generazioni precedenti.
Tuttavia, persino negli anni del trionfo della cultura “beat” e “hippie”, riflesso nella musica rock/pop attraverso il boom della psichedelia e dei grandi raduni giovanili, la musica giovanile di massa non smetterà mai di essere un gigantesco mercato, né di veicolare complessivamente una visione del mondo edonista. Lo stile di vita primitivistico-naturalista, che era il centro della cultura hippie,esprimeva in effetti un’idea del piacere talmente pervasiva da implicare il rifiuto di qualsiasi altro scopo e attività che non fosse identificabile con la gratificazione immediata delle pulsioni istintuali di individui non più socialmente “disciplinati”, ma proprio per questo permeabili a qualsiasi offerta di mercato in grado di incarnarne le aspirazioni sempre più esigenti.
In questo senso la musica pop/rock (attraverso dischi, concerti, radio, televisione, cinema) e le droghe rappresentavano i due grandi mercati paralleli – il primo legale, il secondo no, ma questo oramai aveva poca importanza – continuamente rimandanti l’uno all’altro, destinati a raccogliere i consumi di massa di una generazione di sedicenti “rivoluzionari” sorta nell’Occidente opulento. Una tesi, quella di Capozzi, adeguatamente argomentata, che sfronda molti luoghi comuni e, indirettamente, spiega perché, dopotutto, nulla sia mutato e la cultura giovanile sia proseguita all’insegna di altri personaggi ed etichette musicali e di costume, sempre in bilico tra false ribellioni e reale conformismo in funzione del business imperante. Che il più trasgressivo di tutti resti per i giovani pur sempre Giacomo Leopardi?
Nicola Marzo
(LucidaMente, anno VIII, n. 91, luglio 2013)