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Home VECCHI ARTICOLI RECENSIONI

Napoli, appena un po’ dopo la catastrofe

Dalla redazione by Dalla redazione
1 Dicembre 2007
in RECENSIONI
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Bussate alla porta di Napoli e troverete altri mondi, infiniti livelli infernali. E’ questo l’assunto alla base dell’antologia di racconti Partenope Pandemonium. Storie stregate all’ombra del Vesuvio, a cura dello scrittore ed esperto di comunicazione di massa, Giuseppe Cozzolino (Larcher Editore, pp. 304, € 10,00).
Si postula di più: l’esistenza di un multiverso, Omia Pandemonium, dal quale provengono e trovano rifugio creature del folklore partenopeo e personaggi del passato dediti a conoscenze proibite. E come Alice ha dovuto attraversare lo specchio per trovare risposta alle sue curiosità, così il lettore è portato a toccare con mano situazioni e personaggi capaci di fornire una spiegazione alla caotica vitalità e all’impulso autodistruttivo presente nel dna di questa città.
Tra gli autori spiccano alcuni tra i più affermati scrittori horror, mystery e noir napoletani, da Ugo Mazzotta a Sergio Brancata, da Diana Lama a Giuseppe Celentano.
I racconti sono divisi in tre sezioni temporali: Ieri, Oggi, Domani – implicito omaggio all’omonimo film del 1963, diretto da Vittorio De Sica (e di cui Eduardo de Filippo sceneggiò il primo degli episodi).
Alla sezione Domani appartiene Only One di Monica Florio – distopico e allegorico nella lucida descrizione di ciò che potrebbe accadere -, che riportiamo di seguito.

Only One
di Monica Florio

L’esodo
Tutto era cominciato con le carcasse dei cani abbandonate per strada a marcire sotto il sole cocente. I loro padroni li avevano scaricati senza troppi ripensamenti per scappare nei paesi ritenuti ancora al riparo da guerre fratricide. Non erano più tornati e le bestie si erano arrangiate da sole. Alcune avevano resistito alle temperature più torride, finendo per incrementare la schiera di randagi che ormai infestava le strade cittadine. Sembrava di essere a Tunisi, non a Napoli.
I primi ad essere decimati erano stati i cani di taglia piccola, stroncati come gli anziani proprietari da un attacco cardiaco; poi era toccato agli esemplari più grossi che, intrappolati nelle lussuose ville residenziali, erano usciti fuori di testa, sbranandosi fra di loro. Quel loro abbaiare furioso era stato l’ultimo campanello d’allarme in una metropoli quasi disabitata, ridotta ad un’immensa discarica.
Nel giro di pochi anni della città non se ne parlava quasi più. Chiusa in un regale isolamento, era stata dimenticata persino da chi, in un primo tempo, aveva creduto di poterla salvare.
A quei pochi sventurati che non avevano i soldi per scappare non restava che l’attesa, paziente, della fine.

I sopravvissuti
Nel cuore del Vomero, tra insegne cadenti e rifiuti ammassati, si muoveva, cauto, un uomo. Guardandosi attorno, come chi teme di essere spiato, tentava di farsi strada in quel cumulo di rottami, con l’espressione desolata di chi, esausto, vorrebbe chiudere gli occhi e gettare la spugna. Quello scempio che gli si parava davanti era via Scarlatti, dove da ragazzo aveva abitato.
A differenza di chi fuggiva da Napoli per non farvi più ritorno, Luca era arrivato da qualche mese dopo dieci anni di assenza. Mentre, impotente, contemplava lo spettacolo della città agonizzante, due setter, dagli occhi lucidi e il respiro affannoso di chi ha contratto la rabbia, gli si avvicinarono lentamente. Dallo sguardo assente sembrava non lo avessero neppure notato ma lui sapeva che sarebbe bastato un gesto sbagliato per averli addosso. A fatica, riuscì a dominare il terrore che quella coppia di randagi, a digiuno da chissà quanto tempo, potesse banchettare a sue spese. Con finta indifferenza, proseguì nel suo cammino, sopprimendo l’impulso di girarsi per vedere se le sue guardie del corpo lo stavano tallonando. Ad un tratto, si accorse di essere solo e tirò un respiro di sollievo. Giunto in piazza Vanvitelli, in prossimità di quella che un tempo era stata una rinomata caffetteria, udì un grido d’aiuto. Un tipo tarchiato, con la benda sull’occhio sinistro, stava strattonando un ragazzino per costringerlo a seguirlo.
– Ehi, piccolo bastardo, non fare storie. Siamo rimasti soli, non vedi?
Piuttosto recalcitrante, la vittima scalciava e si divincolava disperata.
– Lascialo.
L’aggressore si girò di soprassalto, valutando se gli sarebbe convenuto inimicarsi il nuovo venuto. Con un ghigno feroce, decise che non era il caso.
– Ok, prenditelo pure ma, quando hai finito, lasciamene un po’…
Disgustato, Luca gli sputò addosso. Lo udì allontanarsi, imprecando, in direzione di via Scarlatti. Non fece in tempo ad avvertirlo del pericolo che correva: dal rumore spaventoso dei latrati intuì che i cani, rimasti in zona, avevano finalmente trovato di che cibarsi.
– Presto, andiamocene via – guardò il bambino negli occhi e, risoluto, gli tese la mano. Senza esitare, il piccolo gli afferrò le dita e si lasciò condurre via.
A piazza Medaglie d’oro dovettero fermarsi. Col fiato corto, Luca si accertò di non essere seguito. Diede un’occhiata al bambino che sembrava reggere bene le emozioni forti.
– Come ti chiami? – gli chiese in tono rassicurante.
– Giuseppe, ma in orfanotrofio mi chiamano Gius – sussurrò.
– Ok, Gius. Li abbiamo seminati.
Sorrise per la prima volta in quella giornata. Non era mai stato bello, Luca. Con i capelli scompigliati che gli scendevano sulle spalle, il naso decisamente aquilino, le guance scavate ed arrossate dal sole, pareva un pellegrino capitato lì per caso. A Giuseppe, però, non dispiacque.
– Dove andiamo? – gli chiese curioso.
Bella domanda. In una città che colava a picco, senza una lira e, per giunta, con la pancia vuota.
– Non lo so. L’importante è che ci muoviamo.
Si alzò in piedi e, dopo essersi stiracchiato un po’, tirò da una tasca del giubbotto un cappellino con la visiera. Se lo mise in testa, poi cambiò idea e lo offrì a Giuseppe.
– Mettilo, altrimenti rischi un’insolazione.
Vagabondarono per una buona mezz’ora. In via Piscicelli Luca rallentò il passo, come soprappensiero, esitando davanti a quel che restava del “Victory”.
– Ti piace il cinema?
Gius fece segno di sì con la testa. Si vergognava di dirlo ma non c’era mai stato in vita sua. All’orfanotrofio, al massimo, vedevano qualche cassetta.
Mentre si facevano strada tra sedie divelte e manifesti strappati, una voce roca li fece sobbalzare:
– Ehi, dove credete di andare?
A parlare era stato il probabile proprietario della sala che, alquanto perplesso, squadrava i due dalla testa ai piedi. Proprio non riusciva a capacitarsi che ci fosse ancora qualcuno con la voglia di divertirsi mentre Napoli aveva i giorni contati.
– Sia chiaro, non faccio beneficenza. Per entrare dovete darmi qualcosa in cambio – precisò tanto per chiarire che, nonostante la forzata inattività, non si era rammollito del tutto.
Piuttosto imbarazzato, Luca sollevò la manica, scoprendo il Fossil donatogli dallo zio prima della partenza.
– Non vale granché, è solo un ricordo – si affrettò a dire.
– Di questi tempi è meglio di niente.
E, imperturbabile, gli fece segno di sfilarsi l’orologio.
A malincuore Luca lo accontentò, avviandosi con Gius verso la sala. Tra la miriade di sedie vuote ne scorse una su cui era poggiata una busta di pop-corn mezza aperta. Nonostante la puzza, ne attinse a piene mani offrendone anche a Gius. Intanto, sullo schermo comparivano i titoli di testa di Ritorno al futuro, il film preferito di Luca, quello che non si sarebbe mai stancato di rivedere.
– Gli piacerà – pensò girandosi verso Gius che, pur mangiando voracemente, non staccava gli occhi dallo schermo. Fu il suo ultimo pensiero prima che le palpebre gli si chiudessero per la stanchezza.
Benché le condizioni del “Victory” fossero pessime, era in funzione il dispositivo automatico che esentava l’operatore dall’incombenza di proiettare la pellicola. Grazie a questa trovata il proprietario poteva fare tutto da solo. In quel momento, per esempio, stava appartato in una stanzetta, incapace di contenersi dall’emozione per l’orologio che aveva mirabilmente estorto a quei due poveri disgraziati. Lo teneva appoggiato all’orecchio e se lo girava fra le mani a tal punto da farlo, inavvertitamente, cadere. Nel chinarsi per raccoglierlo, vide che il Fossil aveva perso la rotellina e non camminava più. Fuori di sé, si alzò di scatto da terra, colpendo con la testa in pieno lo spigolo arrugginito di un mobile. Si tastò il cranio, intontito, e, alla vista del sangue che sgorgava a fiotti, svenne.

La profezia
Due ore dopo, la proiezione si era conclusa, lasciando il posto ad una profonda nostalgia nell’animo di Luca. Bastò uscire fuori, all’aperto, per farlo precipitare di nuovo nell’orrore quotidiano, quello da cui non c’era fuga se non attraverso l’immaginazione.
– Puoi dormire da me. Sto in un vecchio megastore abbandonato, abbastanza sicuro.
Nel ripercorrere le strade silenziose del Vomero, ripensava al viaggio di ritorno, insolitamente calmo e tranquillo su un treno il cui grosso dei passeggeri era sceso a Roma.
Quando era partito, aveva provato a cancellare dalla mente la sua città ma non c’era riuscito. Nei suoi ricordi, Napoli era sempre stata il luogo delle contraddizioni, un diamante grezzo che solo un intenditore può apprezzare realmente.
E ora camminava con le mani in tasca, sfiduciato, in compagnia di un ragazzino di cui a stento conosceva il nome.
In via Luca Giordano ritrovò il megastore dove temporaneamente aveva costruito il proprio rifugio. Si guardò distrattamente il polso e si accorse che non aveva più l’orologio.
– Scegline uno – disse a Gius, indicando alcuni Swatch ancora imballati, accatastati nel magazzino.
Vedendo che il ragazzo aveva già fatto man bassa, lo ammonì severo:
– Non siamo ladri. E poi ce ne serve uno solo.
Gius scelse uno Swatch dal cinturino blu, con un vampiro disegnato su quadrante, se lo sistemò al polso e si stese sul pavimento, dove, su un ammasso di stracci disordinati preparato alla meglio da Luca, avrebbe dormito quella notte.
Al risveglio scoprirono di non essere soli. Un Beagle, razza di per sé inoffensiva, aveva trascorso con loro la nottata, rannicchiandosi accanto al corpo di Gius.
Dalla felicità impressa sul volto del ragazzo, Luca capì che quello sarebbe stato il loro cane e si sentì meno solo. In questi mesi non aveva fatto altro che interrogarsi su come si era giunti a quello squallore. Era come se la gente fosse improvvisamente impazzita, rinnegando ogni sentimento, vittima di un virus che presto si sarebbe esteso, investendo le altre città.
A causa di quell’intuito innato che spesso gli consentiva di vedere in anticipo ciò che sarebbe successo dopo, lui sapeva che non ci sarebbe stato alcun futuro per loro. E, pur sentendosi come chi gioca una partita truccata, già persa in partenza, non se la sentiva di abbandonare Gius al proprio destino.
Senza rendersene conto, distratto da quei pensieri angoscianti, aveva perso la cognizione del tempo. Affrettò il passo per rientrare nel megastore. Oltrepassata la soglia, avvertì un rimescolio allo stomaco e dovette reggersi ad una colonna per rimanere in piedi.
Lì, su quel letto improvvisato, il Beagle si leccava il muso soddisfatto. Sotto di lui, con la testa riversa all’indietro in una posizione innaturale, Luca poteva scorgere il corpo senza vita di Gius.
Con un moto di incredulità e di orrore alla vista dell’espressione paciosa, quasi indolente dell’animale, si portò le mani alla schiena e, da una fondina nascosta, estrasse una pistola. La puntò prima verso il Beagle, quindi se la accostò alla tempia.
Ingoiò la propria rabbia, il dolore di essere stato fregato ancora. Maledì quel dono che ancora una volta si era rivelato inutile perché non gli aveva permesso di proteggere le persone che amava. Un colpo esplose nell’aria. Con passo dinoccolato, il mostro si avvicinò a quello che, con tutta probabilità, sarebbe stato il pranzo più succulento delle ultime settimane.
Secondo la profezia, uno solo si sarebbe salvato. Non necessariamente un uomo.

(Only one, di Monica Florio, in Partenope Pandemonium. Storie stregate all’ombra del Vesuvio, a cura di Giuseppe Cozzolino, Larcher Editore).

“Vide Napule e po’ muore”, verrebbe da dire dopo aver letto il racconto.
Degrado, abbandono, egoismo, lotta per la vita, ma anche la necessità di prendersi cura di qualcuno e l’ineluttabilità di un futuro inutilmente preconizzabile.
Senza dimenticare il ruolo dell’immaginazione e di riflesso dell’arte, unica ancora di salvezza – anche se per poche ore – in un mondo che “cola a picco”. Ed è forse un azzardo vedere nei cani i camorristi che hanno annegato Napoli in un mare di “munnezza”?
Non è un caso che il film preferito di Luca sia Ritorno al futuro, un film dove tutto ciò che è già scritto diventa modificabile, un mondo dove si può tornare indietro con il senno di poi e correggere i propri sbagli.
Salvare Gius avrebbe voluto dire salvare la speranza e con essa se stessi, perché non bisogna mai smettere di vigilare su ciò che ci è caro. La minaccia potrebbe venire da chi apparentemente è inoffensivo.
La posta in gioco è alta e l’autrice la mostra con un pessimismo spietato: un mondo di uomini o un mondo di cani.

L’immagine: La copertina del volume.

Ivan Libero Lino

(LucidaMente, anno II, n. 9 EXTRA, 15 dicembre 2007, supplemento al n. 24 dell’1 dicembre 2007)

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Tags: antologia di raccontiCozzolinoDiana LamaHorrorLarcherlinoMonica FloriomysterynapolinoirOnly OnePartenope Pandemoniumscrittori napoletaniStorie stregate all'ombra del VesuvioUgo Mazzotta
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