Nel 1989 Peppe Tizian, onesto bancario, venne ucciso a Bovalino, in provincia di Reggio Calabria, dalla mafia locale. Ne parla con noi in un’intervista suo figlio, oggi noto giornalista de “L’Espresso”
Giovanni Tizian, giornalista de L’Espresso, ha partecipato a Lamezia Terme (in provincia di Catanzaro) come relatore al corso di videogiornalismo civico Giornalisti o eroi?, organizzato il 13 aprile scorso dalla Fondazione Trame e dall’Associazione antiracket Lamezia Onlus, diretto ai giovani volontari di Trame visioni civiche e aperto al pubblico. In questa occasione, Tizian ha rilasciato per LucidaMente un’intervista in cui parla della sua infanzia segnata dall’uccisione del padre e dal corso che ha poi preso la sua vita.
Originario di Bovalino, in provincia di Reggio Calabria, trent’anni fa, esattamente il 23 ottobre del 1989, perse infatti il padre, Giuseppe Peppe Tizian, bancario, ucciso mentre rientrava da Locri diretto a Bovalino, vittima innocente della mafia. Accanto al cadavere, ritrovato sulla Statale 106 di fronte all’area archeologica di Locri Epizefiri, era posizionata l’arma da fuoco, un fucile calibro 12 con matricola abrasa e caricato a pallettoni. Una morte che sarebbe passata nel dimenticatoio se non ci fosse stato il figlio Giovanni a riaprire il fascicolo per far luce su quella strana e tragica uccisione.
Giovanni Tizian, partiamo dai suoi scritti…
«Sono autore ad oggi di cinque pubblicazioni. La prima, del 2011, sul tema delle mafie al Nord, mentre il penultimo libro, cui sono molto legato, si intitola Rinnega tuo padre e prende in considerazione la situazione dei bambini delle famiglie di ’ndrangheta. Un modo di raccontare la criminalità diverso, visto con gli occhi di “vittime particolari”, solitamente non considerate tali ma che in realtà lo sono in quanto, appartenendo a famiglie deviate, subiscono il cinismo dei padri, degli zii, dei nonni, che li trasformano in soldati di mafia. Sento le loro storie molto mie perché, anche se in maniera diversa, pure loro perdono gli affetti, ma il padre in questo caso per loro vuole un destino di morte. L’ultimo mio scritto è stato pubblicato il 28 febbraio scorso ed è una inchiesta sulla Lega Nord, dove mettiamo in luce un lato oscuro che è difficile trovare nei salotti televisivi. Nel libro nero della Lega, edito da Laterza, viene spiegato con documenti inediti come il ministro Matteo Salvini sia stato da sempre a conoscenza della truffa dei 49 milioni di euro sui rimborsi elettorali architettata da Umberto Bossi e Francesco Belsito».
Quanto la sua personale esperienza ha inciso sulle sue scelte?
«Sarei ipocrita se dicessi che quanto accaduto in Calabria e il dover andare via da Bovalino da bambino non abbiano inciso sulla mia personalità. Credo abbiano condizionato anche la mia scelta di trattare un tema come quello dei minori appartenenti a famiglie mafiose, perché anche loro in un certo senso sono vittime, costrette a fuggire dalla ’ndrangheta o, peggio, a fare una carriera criminale, a finire in carcere o a morire ammazzate. Sicuramente il mio percorso di vita ha inciso sulla scelta di affrontare temi e storie decisive non solo per la Calabria, ma per l’Italia».
Quanti anni aveva quando è stato sradicato dalla Calabria?
«Sette anni. Non sapevamo dove andare. Dopo qualche anno dalla morte di mio padre, con mia madre e mia nonna, entrambe insegnanti, ci trasferimmo in Emilia-Romagna, a Modena. Sono cresciuto sempre con queste figure di riferimento femminili, con una forte personalità. Ho frequentato il liceo scientifico. Dopo, ho studiato Criminologia, sempre in Emilia-Romagna, tra Bologna e Forlì. Per il desiderio di scoprire ciò che per poca volontà non era mai stato scoperto, decisi di indagare sulla morte di mio padre. Al Tribunale di Locri, dopo quindici anni dal suo assassinio, chiesi di poter accedere al suo fascicolo per capire ciò che era accaduto. Ci sono voluti due anni di attesa per poterlo avere in visione; poi mi è stato dato incompleto, mancavano delle parti. Allora avevo iniziato a lavorare come giornalista e ricorsi alle mie conoscenze, ma posso dire che se avessi avuto gli strumenti di una procura avrei fatto sicuramente meglio di loro. Lo dico con certezza, anche perché in quel fascicolo mancano interrogatori di persone che venivano collegate ai clan della zona e dei quali non c’era traccia».
Dopo aver lavorato a Modena per la locale “Gazzetta”, occupandosi tra l’altro di una grande inchiesta legata al potere dei clan in Emilia e al Nord, in particolare dei Casalesi, ed essere stato posto sotto scorta, si è trasferito a Roma, dove scrive per “L’Espresso”. Pensa di tornare nella sua terra d’origine?
«Vorrei trovare un po’ di stabilità, anche se noi del Sud dobbiamo abituarci a una vita itinerante. Siamo un popolo che si sposta di continuo. Ma cerco di tornare sempre in Calabria. Ho visto la mia regione andare avanti in tanti ambiti, soprattutto civili. Il Tribunale dei minori di Reggio Calabria per me resta un esempio unico al mondo, con questa voglia di tirar fuori i ragazzi da una situazione per molti irreversibile. Il numero di imprenditori che ho visto denunciare qui non l’ho visto in Emilia-Romagna. In Calabria il problema è di contesto, la regione si sta spopolando e restano ’ndranghetisti che dettano legge. Però, aver conosciuto il resto del Paese mi fa dire che i problemi che ci sono al Sud si sono purtroppo radicati in tutta Italia».
La ’ndrangheta non investe in Calabria ma fuori, eppure questa regione è considerata terra di malavita…
«Qui la mafia si permette cose che in Lombardia e in Piemonte non può permettersi. Nel senso che continua ad avere quell’arroganza che al Nord non ha. Perché in Emilia gli imprenditori della zona stringono rapporti a patto che ti comporti in maniera legale. La Calabria è il feudo della ’ndrangheta, per esempio Reggio Calabria e San Luca rappresentano un riferimento per tutti i clan. Qui possono permettersi cose che al Nord evitano poiché questa terra la sentono loro. Perderla significherebbe perdere un punto di riferimento».
Si può sconfiggere la ’ndrangheta?
«Secondo me si può. Per esempio, la legge sull’allontanamento dei minori dalle famiglie clan applicata dal Tribunale di Reggio Calabria è una strada importante. Poi certamente le istituzioni devono essere credibili. Le denunce in Calabria sono aumentate quando la gente ha visto nelle Procure persone autorevoli, attendibili, ma, in assenza di esse, il cittadino arretra. D’altra parte, la lotta alla mafia non può essere solo risposta repressiva: dopo un blitz, lo Stato deve essere presente e non scomparire. Occorrono servizi sociali funzionanti, con centri di aggregazione e scuole decenti, con educatori. Il diritto alla scuola è di tutti. Accanto alla repressione deve essere data la possibilità ai ragazzi appartenenti a “certe” famiglie di respirare aria diversa, che non sia solo quella di casa».
Che cosa ne pensa del Consiglio dei ministri voluto dal governo in Calabria?
«Avranno molto da fare, ma a me sembra che faccia comodo a un certo tipo di politica prestare attenzione ad alcune questioni soltanto in periodo preelettorale».
Le immagini: il giornalista Giovanni Tizian in occasione del suo intervento come relatore al corso Giornalisti o eroi? lo scorso 13 aprile a Lamezia Terme (Catanzaro).
Dora Anna Rocca
(LucidaMente, anno XIV, n. 161, maggio 2019)