Chi ha la fede si sforza di addottrinarsi passivamente con testi edificanti, invece chi non crede privilegia il dubbio e la ricerca, esaltando la forza del pensiero indagante
Il seguente testo è estratto dagli archivi di NonCredo. La cultura della ragione, «volume bimestrale di cultura laica». Abbonandosi a NonCredo, in un anno si possono ricevere a casa propria 600 pagine, con oltre 300 articoli come questo, ma inediti. Il costo? Meno di un caffè al mese: formato pdf 17,00 euro; formato cartaceo 29,90 euro: http://www.noncredo.it/abbonamenti.html.
Sapere aude, ovvero «abbi il coraggio di cercare di sapere». Questo felice messaggio, riferibile a Siddharta, Socrate, Kant e a tutto l’Illuminismo, intende esaltare la forza del pensiero indagante e quella del dubbio metodologico, la scintilla anche romantica del “sapere” come conquista dell’Uomo contro l’ignavia della conservazione e la piatta entropia del dogma, la ricerca della prova logico-sperimentale contro fascinazioni fideistiche di (talvolta truffaldina) “ultraterrenità”. È una visione della vita che è esaltante per molti, ma per molti di più è ben scomoda, difficile, usurante.
I credenti di qualsiasi religione riposano sulla delega ad altri, tacita o espressa, circa la scelta della via e delle categorie etiche e cognitive da seguire nella propria vita. Può trattarsi di comoda fiducia nella malleveria altrui o di accidia intellettuale o di quietismo temperamentale, tutti capaci di tacitare ansie e dubbi, ambizioni e curiosità. La ricerca del sapere viene sostituita con l’imparare testi indiscutibili ma edificanti: bibbie, corani, catechismi, rivelazioni ed esoterismi vari. Come l’animale in cattività baratta la perdita di libertà con vitto, alloggio e protezione dal predatore, così molti preferiscono abdicare alla libertà di pensiero e di eretica trasgressione con la beatificante, tranquillizzante, pacificante, moralmente suadente, comunitariamente aggregante, tradizionalmente rispettosa accettazione del “libro di testo” da imparare, accettare, osservare e non discutere.
E i noncredenti? A loro non è concesso questo alibi cognitivo, debbono arare loro stessi il territorio culturale che invocano; imparare è un verbo inconiugabile col capire, col porsi domande, con l’infrangere tabù. È il riscatto di sé come Uomo e non come mammifero. Ma è poi così? I credenti normalmente sanno assai poco dei recessi della loro dottrina e si contentano di pochi luoghi comuni identitari. Di nuovo: e i noncredenti? Ahimè, ve ne sono troppi cui basta dire di sé: “sono ateo”, “sono agnostico”, “io non credo”, “le religioni sono stupidaggini”… quando l’unica stupidaggine è contentarsi di definizioni vuote non suffragate da ricerca, dubbi e fatica di tentare di capire. Apprezzo molto una frase del noncredente Massimo Cacciari: «Chi non si è mai posto il problema di dio è uno che non pensa». È soltanto domandando a se stessi e cercandosi attorno che si arriva a una consapevolezza responsabile della propria noncredenza.
Le immagini: copertine della rivista Noncredo.
Paolo Bancale – direttore responsabile del «volume bimestrale di cultura laica» NonCredo. La cultura della ragione (dall’archivio della rivista)
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(LucidaMente, anno VIII, n. 89, maggio 2013)