Presso Casa degli Artisti, “Fernweh-II Atto”, esposizione multimediale di Friedrich Andreoni e Roberto Casti
Fernweh è un termine tedesco, composto da fern (“lontano”) e weh (“dolore”), dalla forte connotazione romantica (significato e lessico cominciano a essere presenti nella prima metà dell’Ottocento). La sua traduzione è molto più difficile dei meno ermetici Wanderlust (“voglia di viaggiare”) o Heimweh (“dolore/nostalgia di casa o della patria”), sicché la parola viene trasposta come “nostalgia (Sehnsucht) per la lontananza o dell’altrove”.
Sono certamente comprensibili il desiderio di recarsi in posti lontani, anche per evadere dalla noia e dalla routine quotidiana, e la nostalgia di ciò che abbiamo conosciuto, magari amato, e ci manca. L’etimologia di quest’ultima deriva infatti dal greco (νόστος, “ritorno”, e άλγος, “dolore”; quindi, “dolore del ritorno”) e indica appunto lo stato emotivo malinconico per la lontananza da persone o luoghi cari o di rammarico per un evento passato che si vorrebbe rivivere.

La seconda Fernweh di Andreoni e Casti
Ma Fernweh ci conduce verso qualcosa di ancor più indefinito e di ineffabile. Difatti, non è semplice capire come si possa provare dolore/nostalgia per ciò che ci è lontano e ancora sconosciuto (leggi anche La bellezza che deriva dalle ferite e dalle lacrime). Intrappolati nell’infelicità della realtà e della quotidianità, vorremmo trasferirci in un altro mondo, un altrove assoluto, mai visitato.
Partendo da tale stato esistenziale, l’esposizione milanese degli artisti Friedrich Andreoni e Roberto Casti s’intitola proprio Fernweh-II Atto (perché già presentata nel novembre 2023 presso lo spazio indipendente KA32 di Berlino). Curato da Caterina Angelucci e Andrea Elia Zanini, l’evento sarà ospitato presso Casa degli Artisti (corso Garibaldi 89A/via Tommaso da Cazzaniga; www.casadegliartisti.org; info@casadegliartisti.org) e sarà inaugurato giovedì 23 gennaio 2025 alle ore 18 con la performance Aleph (Milano-Berlino-Lisbona-Milano) di Casti. Quindi la mostra proseguirà fino a giovedì 6 febbraio 2025, rimanendo aperta tutti i giorni dalle ore 12,30 alle 19, tranne il lunedì di chiusura.

Il rapporto con la paralisi de I dublinesi joyciani
La mostra trova le proprie radici nell’invito, rivolto ai due artisti, a riflettere sulle tematiche affrontate dai racconti contenuti nel capolavoro I dublinesi (1914) di James Joyce in relazione al contesto in cui essi vivono, rispettivamente Berlino e Milano. Comparando i quindici racconti alla situazione contemporanea, emergono degli elementi speculari: la sensazione di vuoto, la paralisi collettiva e il desiderio di fuga.
Così i personaggi dei quindici racconti tornano a essere ancora attuali. Ogni loro vicenda, infatti, presenta due costanti narrative: la paralisi collettiva, indotta dalla situazione politica e dalla repressione religiosa del tempo, e l’idea di fuga, come conseguenza di una rinnovata consapevolezza. In particolare, nel celebre Eveline l’epifania (la rivelazione-chiave) è indotta dal suono di un organetto: la protagonista sceglie di fuggire da Dublino per ricominciare la sua vita in Sud America, ma, presa la decisione, è bloccata dalla paura e dai rimorsi. Resta così in Irlanda, lasciando così la speranza di una desiderata felicità, incarnata dal promesso sposo Frank, che si allontana alla sua vista su una nave diretta a Buenos Aires.
Qualcosa che ci trasporti dove desideriamo: Ending Times
Attraverso installazioni sonore, sculture e performance, gli artisti indagano la necessità di raggiungere un luogo, materiale o immateriale, che consenta di astrarsi dalla frenesia e dal vuoto del vissuto, un rifugio dalle pressioni imposte dal contesto sociale della metropoli. Non necessariamente una visione o un’esperienza metafisica ma anche una suggestione, una persona, un luogo ideale, una lettura o un suono che permetta, a colui che Stendhal definirebbe “privilegiato”, di chiudere gli occhi ed essere trasportato ovunque lo desideri. Da qui la scelta del titolo della mostra e la realizzazione delle opere che introduciamo di seguito.
Cominciamo con Friedrich Andreoni. Ispirandosi all’iconico uovo che Piero della Francesca dipinse tra il 1472 e il 1474 nella Pala di Brera, l’artista propone Ending Times (2023), un’installazione sonora multicanale, composta dalla successione di campioni audio degli ultimi cinque secondi di diverse colonne sonore cinematografiche. Un altoparlante, posto al centro dello spazio espositivo come nella Sacra Conversazione francescana, riproduce in loop una composizione di 30 minuti, creando un’atmosfera senza fine, caratterizzata da echi distanti e malinconici.
Richiamando l’idea del viaggio, la successione di ogni traccia si delinea come un ciclo ininterrotto di partenze, arrivi e ripartenze: ogni confine è sfumato, in una sequenza continua di finali. Ending Times simboleggia il perpetuo e il metamorfico invitando i visitatori a perdersi in un non-luogo che non hanno mai vissuto: «Se non dovessi tornare, / sappiate che non sono mai / partito. / Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai» (Giorgio Caproni).

I’m ready e due Untitled
In mostra è presente anche I’m ready (2022): una ricetrasmittente radio, utilizzata dalle forze di sicurezza negli Stati uniti, collocata a terra come fosse abbandonata. Il dispositivo riproduce in loop la registrazione audio di un musicista che pronuncia la frase «I’m ready» prima di iniziare a registrare un brano.
La frase è ormai diventata un elemento distintivo nel gergo comune grazie alla cultura cinematografica e pop americana. Nei film, nelle serie tv e nei video musicali, questa espressione incarna un momento di tensione o di preparazione, spesso carico di aspettative. Ha assunto una valenza archetipica, rappresentando il passaggio simbolico tra l’attesa e l’azione, tra il potenziale e la realizzazione. L’espressione inglese, stigmatizzata, solleva la domanda: pronto per cosa? Un’aspettativa continua.
Segue l’opera Untitled (2022): tre fusioni in alluminio di piccole antenne chiamate in gergo “a pinna”, originariamente progettate per le automobili. Queste forme eleganti e aerodinamiche, generalmente utilizzate per la ricezione del segnale, vengono rimosse dal loro contesto funzionale e immaginate come oggetti scultorei. Installate in una disposizione minimalista, le fusioni evocano un senso di movimento e precisione tecnologica, mettendo in risalto la loro forma organica, simile a una pinna.
Conclude la serie di Andreoni Untitled (2024), la fusione in bronzo di una tipica antenna a frusta, flessibile e lunga, utilizzata nei convogli militari per comunicazioni radio a medio e lungo raggio. Quando il veicolo è in stazionamento, l’antenna viene sollevata in posizione verticale per massimizzare la capacità di trasmissione e ricezione del segnale radio. Durante il movimento del veicolo, invece, l’antenna viene inclinata e fissata con un cavo o un supporto elastico ancorato alla parte anteriore del mezzo.
Andreoni fonde l’antenna nell’attimo di tensione, momento che protegge il dispositivo da possibili danni causati da vibrazioni e urti. Ne risulta una linea nello spazio, che ricorda quasi una scritta ma anche un ponte o l’inizio di un arco, quest’ultimo elemento caratterizzante della ricerca dell’artista.

La serie Aleph
In occasione della mostra a Casa degli Artisti, Roberto Casti continua la sua ricerca sulle connessioni marginali che legano l’interno e l’esterno portando avanti la serie Aleph (2023-in corso), iniziata durante il primo capitolo di Fernweh a Berlino. Per la realizzazione di queste opere, l’artista ha collezionato registrazioni sue o appartenenti ad amici provenienti da città lontane tra loro, andando poi a modificarle e rallentarle fino a creare dei tappeti sonori ambient in cui ogni dato spaziale e temporale viene schermato.
Le tracce sono solitamente riprodotte attraverso dei display che l’artista definisce non-oggetti, dei dispositivi che abitano i margini di qualsiasi ambiente domestico o commerciale come scatole di derivazione, tubi di scarico o dell’acqua e condotti per l’aerazione, strumenti funzionali che solitamente servono a nascondere dei “passaggi”, siano essi di energia, di aria o di informazioni. Utilizzando questi dispositivi come casse di risonanza anomale, l’artista mette in evidenza ciò che abita ai margini degli spazi quotidiani, reinterpretando le connessioni che legano l’interno abitativo all’esterno, il micro al macro, l’individuo al pianeta in cui vive.
In stretta relazione con lo spazio di Casa degli Artisti, Roberto Casti proporrà una nuova versione di Aleph collaborando con Maya Aghniadis, musicista di origine libanesi che vive ad Atene, in Grecia. L’opera funge da cassa di risonanza per una composizione realizzata rallentando alcune registrazioni effettuate in Libano.

Opere interattive, in perpetuo divenire
Della stessa serie fa parte anche la già citata installazione performativa Aleph (Milano-Berlino-Lisbona-Milano). Quest’ultima è una macchina da scrivere che il pubblico può utilizzare per contribuire a una lista di domande – iniziata in occasione della mostra di Berlino e poi continuata durante la residenza artistica Hangar a Lisbona – che riflettono sulla propria posizione nel mondo e nel proprio tempo storico. Il testo/opera in continua espansione è un dispositivo di consapevolezza spazio-temporale, un tentativo di immedesimazione impossibile che sposta però l’attenzione dall’individuale al collettivo, presumendo un ribaltamento della propria condizione esistenziale legata alla sfera personale. Durante l’opening è prevista una performance/reading del testo.
Accompagnano i lavori appartenenti alla serie ARIA (2024-in corso) partiture caotiche realizzate attraverso una veloce traduzione in segno grafico del suono proveniente dall’esterno dello studio dell’artista. Casti scandisce con una grafite il tempo e i movimenti spaziali su tela o tessuto e, nel caso dei tendaggi, avviene una seconda e lenta lavorazione in cui i segni vengono ricamati. Il risultato è un apparente monocromo bianco che rivela la complessità dei suoi elementi compositivi solamente da vicino, ricordando un attimo di improvvisa rivelazione. Come quando si intravede il pulviscolo danzare in controluce accanto a una finestra.
Maria Daniela Zavaroni
(Pensieri divergenti. Libero blog indipendente e non allineato)