L’“housing sociale”: che cos’è e qual è lo stato dell’arte nel nostro paese rispetto all’Europa? Come ripensare l’edilizia pubblica a fronte di una nuova soglia di povertà e aiutare la ripresa del settore immobiliare?
La tradizionale dicotomia tra alloggio di proprietà e alloggio in affitto è superata, anche alla luce delle odierne trasformazioni sociodemografiche e difficoltà economiche. Sono necessarie soluzioni alternative, quali l’housing sociale, che accolgano il concetto rifondato di povertà e rispondano all’emergenza casa.
Innanzi tutto, il termine housing sociale a cosa fa riferimento? Definirlo edilizia pubblica sarebbe, in parte, errato. È infatti una delle sue sfaccettature, che varia d’intensità a seconda del paese, della situazione e delle politiche abitative adottate. Secondo il Comitato europeo per la promozione del diritto alla casa, le misure di housing sociale sono «soluzioni abitative per quei nuclei familiari i cui bisogni non possono essere soddisfatti alle condizioni di mercato e per le quali esistono regole di assegnazione». In Italia sono, in genere, sistemazioni con contratto d’affitto a canone calmierato. Nascono, per lo più, da una collaborazione pubblico-privato e si rivolgono a quelle fasce di popolazione rese vulnerabili dalla crisi. Parliamo di giovani con contratti precari, lavoratori in cassa integrazione, anziani con una pensione minima che faticano ad arrivare a fine mese… Più in generale, di persone esposte a un’incertezza economica provvisoria, dal reddito troppo alto per accedere ad alloggi popolari e troppo basso per operare nel libero mercato.
Rispetto agli standard europei, il nostro paese risente di un approccio tardivo in materia di housing sociale (vedi Emilia-Romagna e cooperative di abitazione). Già negli anni Settanta, la politica edilizia italiana rivelò una certa inadeguatezza verso le classi più svantaggiate, tracciando un primo solco con realtà europee più lungimiranti. Col tempo, la spaccatura si è acuita, complice anche il rallentamento nei processi di urbanizzazione dell’area mediterranea. Oggi i risultati sono evidenti. Come sottolinea un’analisi svolta nel 2015 dal Centro ricerche economiche, sociologiche e di mercato nell’edilizia, a Roma il 4,3% delle famiglie usufruisce di strutture di housing sociale, contro il 48% e il 21,4% ad Amsterdam e a Copenhagen.
Occorre invertire la tendenza, sfruttando anche le possibilità offerte dal governo attraverso il piano casa. Il decreto introduce – tra gli altri provvedimenti – delle misure urgenti per l’emergenza abitativa. Agli operatori privati viene offerta la possibilità di creare fondi immobiliari locali per l’housing sociale, sfruttando le risorse finanziarie provenienti dallo stato centrale. L’idea è quella di venire incontro non solo alle classi più svantaggiate, ma anche a chi opera nel settore. Oggi, infatti, come descritto nel rapporto annuale dell’Osservatorio del mercato immobiliare, dopo una lunga “convalescenza”, la compravendita in ambito residenziale vive una fase di lento miglioramento. Tuttavia, molti tra quelli che un tempo preferivano il mutuo all’affitto, considerandolo una forma di investimento, oggi non sono più dello stesso avviso. In questo contesto, l’housing sociale si impone, dunque, come importante misura di stimolo del mercato e di sostegno per gli enti pubblici nel recupero e nella salvaguardia del patrimonio.
Tuttavia, il passato insegna quanto l’impegno, finanziario e tecnico, sia infruttuoso se si tralascia la dimensione relazionale. Lo dimostrano alcuni casi di edilizia popolare, costruiti ex novo tra gli anni Settanta e Ottanta; come il quartiere Corviale a Roma. Sono prodotti di urbanistica fallimentare che rappresentano tuttora un problema per le città, poiché “scollegati” dalle reti e dalla vita comunitaria. Urge dunque impostare l’housing sociale sulla base della sostenibilità economica ed energetica, senza però tralasciare l’aspetto umano e relazionale tra condomini e con il quartiere. Solo così, le strutture, oltre a garantire una sistemazione a chi ne ha più bisogno, si possono “legare” al tessuto urbano e resistere all’avanzamento tecnologico.
Luca Puggioli
(LucidaMente, anno XI, n. 122, febbraio 2016)