Viviamo in un mondo fatto di prodotti. Oggetti che vengono concepiti secondo le più diverse strategie d’impatto sul pubblico che li comprerà. Oggetti che si studiano, si teorizzano, s’iniziano a trattare, secondo criteri poco ecologici, senza preoccuparsi della futura prospettiva del riciclo. Siamo circondati da prodotti che ci sbattono in faccia i nostri aspetti, anche quelli più disumani. Un prodotto è tutto ciò che viene offerto sul mercato ai fini di attenzione, uso o consumo, in grado di soddisfare un desiderio o bisogno.
Principio base d’ogni prodotto è la pubblicità, che esprime tanto più fascino quanto più alto è il livello d’immedesimazione individuale.
Individui e prodotti – L’oggetto deve essere enfatizzato, a partire dalla forza d’attrazione esercitata sul consumatore dalla confezione (packaging appeal), anche a costo di fargli perdere credibilità. Le due entità commerciali – prodotto-consumatore – rappresentano attualmente un forte connubio esistenziale. Non c’è oggetto che non sia pensato per l’uomo, e forse, non c’è uomo che non nasca per qualche oggetto. Ecco la spersonalizzazione. Il fenomeno si stratifica a più livelli nella società dei consumi, coinvolgendo ogni contesto. Persino quello del “consumo critico”, d’ultimo conio, è per le industrie una semplice nicchia di mercato cui rivolgersi piuttosto che un’altra, un oggetto di studio a fini commerciali. La “nicchia”, invece, considera l’industria un prodotto dell’economia, che le attribuisce un’identità precisa, collocandola in una posizione attiva, la quale le permette di superare un passato di ricezione acritica.
Il pensiero antitetico – Gli oggetti denotano uno status positivo. Non esiste pubblicità dove s’assegnino qualità negative; sarebbe controproducente, negherebbe il fondamento della pubblicità: propagandare. Anzi, c’è persino qualcuno che ha inventato un metodo per rovesciare la negatività dei prodotti in positività, pensiero antitetico lo chiamano. I prodotti connotano, veicolando idee e valori attraverso ciò che rappresentano e il modo in cui lo rappresentano. Parlano di noi, sono fatti a nostra immagine e somiglianza, ci conoscono meglio degli psicoanalisti dai quali ci rechiamo per liberarci di ciò che non ci piace di noi. Raccontano il modo in cui le nostre vite vengono personalizzate, riempite di idiosincrasie in fatto di vizi, e persino di come si arrivi a negare la dimensione dell’individuo.
Scarpe, machete e fotografie – A Birkenau, nel famoso lager di Auschwitz, Jane Evelyn Atwood, fotografa, fa uno scatto. Immortala scarpe accatastate, semplici oggetti di proprietà delle vittime. Non possiamo stabilire a chi fossero appartenute, ebrei, polacchi o prigionieri di guerra sovietici. Prodotti acquistati con le motivazioni più diverse, finiti per essere buttati uno sull’altro, cancellando l’individualità delle persone che le avevano indossate e lasciandoci l’amaro dubbio che la gente abbia meno senso degli oggetti che si mette addosso. Nel 1994 Jim Nachtwey, fotografo, immortala una serie di machete insanguinati utilizzati dalle squadre della morte Hutu per portare a compimento uno sterminio. E’ la logica preventiva dell’usa e getta. Iraq, 1991: Lewis M. Simmons fa un altro scatto. Un gran numero di fototessere su un tavolo. Ci sono uomini, donne, bambini. Si racconta una famiglia raccolta attorno a una laurea, o le vite d’individui come tanti. E’ una tipologia d’oggetti che connota, senz’altro, più d’una scarpa o di un machete: una memoria degli scomparsi si porta dietro la loro identità visiva. Tuttavia la compresenza di così tanti ritratti sovrapposti gli uni agli altri li spersonalizza. L’identità, visibile singolarmente, si smarrisce in un’immagine di massa fantasma.
Il punto di vista dei carnefici – C’è una costante in questi oggetti? La risposta è che essa si rinviene esattamente nell’assenza dell’individuo. Scarpe accatastate, machete sporchi di sangue senza nessuno che li tenga in mano per uccidere, fototessere che, mostrando scomparsi, negano l’identità visiva. E’ un’assenza significante, provocata. Il punto di vista del deliberato annientamento d’un gruppo razziale, religioso, etnico, politico. Un atto disumano e psicotico poiché nell’era in cui, attraverso le più sottili analisi di mercato, ogni oggetto è progettato tenendo minuziosamente conto della dimensione personale dell’individuo, siamo di fronte a brutali e sistematici processi di spersonalizzazione degli esseri umani, considerati come prodotti che non interessano. La violenza, nel nostro ovattato mondo del benessere, diventa semplicemente un profumo o una scarpa che non intendiamo acquistare.
L’immagine: Il monumento all’Olocausto (Gerusalemme).
Andrea Spartaco
(LucidaMente, anno II, n.15, marzo 2007)