Quando pensiamo agli immigrati di solito mettiamo in un unico calderone visivo una serie di immagini stereotipate, che cancellano le provenienze, i luoghi da dove queste genti partono. Tutto si limita a vedere persone che arrivano su fatiscenti barconi da paesi dell’Africa del Nord, perdendo di vista le differenti situazioni geografiche e sociali di provenienza. Così, quando arrivano in Libia, in Tunisia, o in Marocco, le loro identità di senegalesi, ugandesi, congolesi, liberiani, ecc., vengono cancellate da quella nuova che sono costretti ad assumere. Tutti si ritrovano semplicemente immigrati. D’altronde, nel nostro sforzo maggiore di immaginarli in Italia riusciamo a scorgere nello scenario collettivo immagini di centri di permanenza temporanea, file caotiche alle poste, fino a particolari più agghiaccianti come lo spaccio, lo stupro, la prostituzione e il suo controllo.
Meno spesso troviamo immagini di integrazione che non rimandino a una visione necessariamente violenta. A questo possiamo affiancare un altro modo di vedere questa gente, che racconta le radici del fenomeno migratorio. E’ un po’ come avvicinarsi ai luoghi vissuti da queste persone, zone morte del mondo dalle quali molti tentano di fuggire. Storie di individui si intrecciano così alla vita che in questi luoghi si vive, ai problemi sociali del continente africano, fanno riflettere sul rapporto tra tradizione e modernità, chiariscono perché dall’Africa spesso si cerca di scappare. Accade nel cinema, interessante punto di vista da cui guardare.
Il neorealismo del cinema africano
Per un verso, gli scenari del cinema africano richiamano certa crudezza del neorealismo italiano. C’è il giovane e spietato capo di una gang del ghetto nero, come in Tsotsi di Gavin Hood – che aggredisce in metropolitana, pesta amici e spara per rubare un’auto con un neonato a bordo che gli cambierà la vita – da cui proviene una forte denuncia della guerra fra ghetti e quartieri ricchi delle comunità di colore di Johannesburg in Sud Africa. Poi c’è Ezra, del nigeriano Newton Aduaka, storia di un ex bambino soldato della guerra civile che ha sconvolto la Sierra Leone. O ancora Moolaadè, dell’ottantaduenne senegalese Ousmane Sembene, maestro del cinema africano, che racconta il dramma delle mutilazioni fisiche, e psicologiche, risultato di una mentalità retrograda e di gesti criminali.
I luoghi di queste storie sono in prevalenza città. Visualizzate nel cinema come contenitori di violenze, crudeltà, illusioni, dove emergono tutte le contraddizioni del microcosmo urbano costituite dalla contrapposizione tra quartieri ultra moderni (una sorta di micro-mondi all’occidentale) ed enormi distese di baracche. Ma ci sono anche i sentimenti di inquietudine, angoscia, speranza, disperazione, presenti a partire dalla letteratura della seconda metà degli anni ’80 e nella prima metà degli anni ’90, contrassegnata da una totale sfiducia nel futuro dell’Africa. Sono rappresentati anche luoghi isolati, villaggi, come nei film di Oumarou Ganda (Cabascabo, Le Wazzou Polygame), dove è messo in mostra l’esilio come unica soluzione per quelli a cui va stretta la statica comunità arcaica. E’ un cinema che fa vedere ambiziosi kapò, disposti a comandare massacri di inermi, a piegarsi al potente di turno per trarne vantaggi economici.
Un nuovo fenomeno legato all’industria cinematografica africana
Accanto a questo cinema d’impegno sociale, c’è da un lato un nuovo fenomeno interno al cinema africano, il genere nollywoodiano. Negli ultimi anni in Nigeria è stata infatti messa su Nollywood, tra le prime industrie cinematografiche del mondo, con ben trenta film prodotti ogni settimana e un giro d’affari pari a 100 milioni di euro, con 250 mila persone al lavoro. Sono film per il pubblico di massa. Lo stile è quello delle soap opera americane, e dei tanto amati film di Bollywood in India (costi bassi e prevalenza di pubblico femminile), intriso di sentimentalismi, elementi magici e soprannaturali, anche se negli ultimi tempi la commedia ha preso il largo.
Un esempio ne è Ousofia in London di Kingsley Ogoro, che ha venduto in un solo anno 400.000 copie.
La maggior parte di questi film sono costruiti da trame che parlano di superstizioni popolari e Aids, come in Thunderbolt di Tunde Kelani, una storia di una maledizione inflitta da un marito che fa morire di Aids fulminante qualsiasi uomo abbia un rapporto sessuale con la moglie. Parlano anche di politica, conflitti etnici, stupro e prostituzione come in Last Girl Standing di John Uche. Nollywood ha scatenato le critiche degli intellettuali nigeriani, secondo i quali trasmetterebbe stereotipi negativi e una mentalità retrograda, legata a riti magici e stregoneria.
Oltre agli sviluppi commerciali interni al continente e all’immagine che danno della realtà africana, ci sono quei film costruiti con casting che già hanno un impatto commerciale nei paesi occidentali, a cui appartengono grandi nomi come Nick Nolte, Jean Reno, Leonardo Di Caprio, Jennifer Connelly, prodotti o coprodotti da paesi europei o americani e distribuiti da grosse major del settore, come la 20th Century Fox per esempio, che relegano i grandi autori del cinema africano ai circuiti d’essai come retrospettive e manifestazioni. Ne citiamo alcuni: Sembene Ousmane, Desiré Ecaré, Djibril Diop Mambety, Souleymane Cissé, Idrissa Ouédraogo, Gaston Kaboré.
Il cinema occidentale che racconta l’Africa
È il caso di Hotel Rwanda, Blood Diamond o L’ultimo re di Scozia, film dell’industria del cinema occidentale ambientati in Africa in tempi diversi.
Ne L’ultimo re di Scozia il protagonista è Nicholas Garrigan, un giovane scozzese appena laureato in medicina che per allontanarsi dal padre decide di lasciare il Paese. Siamo nel 1970 e Garrigan si ritrova in Uganda in mezzo a un cambio di regime. Incontra il nuovo presidente Idi Amin, che ha appena rovesciato il governo di Obote con un colpo di Stato. L’incontro è l’inizio di un percorso verso gli abissi per Garrigan, e per la stessa Uganda.
Blood Diamond è ambientato in Sierra Leone, nel 1999, nel mezzo di una guerra civile che vede i ribelli Ruf contrapporsi al governo. Danny Archer è un trafficante di diamanti dello Zimbabwe che vuole mettere da parte tanti soldi da poter lasciare il continente per sempre. La possibilità gli viene data dall’incontro con Solomon, un povero pescatore separato dalla sua famiglia, che è costretto dalle forze dei ribelli a lavorare nei giacimenti di diamanti, dove ha scoperto e nascosto un diamante rosa enorme. Archer vuole il diamante, Solomon la sua famiglia. In questo intreccio si inserisce una giornalista che a sua volta cerca dati e prove da Archer, per smascherare il traffico reso possibile dall’Occidente, e che fornisce i soldi per le armi ai ribelli, mantenendo il Sierra Leone in uno stato permanente di guerriglia.
La vicenda di Hotel Rwanda si svolge nel 1994. Gli Hutu governano il Rwanda, dopo anni in cui il potere era in mano ai Tutsi, voluto dai colonizzatori belgi: “i Tutsi sono più alti, più eleganti e più chiari”. Ora sono i Tutsi i ribelli e sono accusati di aver ucciso il presidente. E’ così che i miliziani Hutu decidono di eliminare tutta l’etnia Tutsi. Il protagonista è Paul Rusesabagina, direttore di un hotel di lusso per stranieri, che farà di tutto per salvare la sua famiglia (è sposato con una Tutsi), i vicini, e quante più persone possibile. Sono film che mostrano quello che succede nei paesi africani attraverso storie personali.
Drammi personali e collettivi
In Blood Diamond lo spettatore vive il dramma di Solomon, strappato dalla famiglia, il cui figlio maschio è stato rapito dai ribelli e trasformato in uno dei tanti bambini-soldato, le immagini più violente sono quelle che li riguardano. Seguendo la sua storia veniamo a conoscenza delle atrocità causate dai ribelli alla popolazione. Nello stesso tempo seguiamo la controparte del trafficante Archer che manipola prima Solomon, poi la giornalista, che li aiuta ad arrivare dove è nascosto il diamante, infine le forze governative, per eliminare un intero campo di ribelli, e raggiungere il diamante.
In Hotel Rwanda seguiamo il punto di vista di Paul mentre passa dall’incredulità alla drammatica presa di coscienza della situazione. Ha servito i bianchi nel suo hotel di lusso, si è lasciato coinvolgere dai loro valori (“lo stile”), e non può credere che ora lascino tutta una popolazione a morire, voltando loro le spalle (ricordiamo che i francesi interverranno solo per far evacuare gli ultimi turisti, e il contingente Onu è ridotto a 4 militari ai quali non è permesso rispondere al fuoco). Allo stesso modo non riesce a credere che si possa, in modo così agghiacciante, eliminare tutta una etnia, finché non è costretto a passare con un furgone sopra un numero impensabile di cadaveri di Tutsi.
Mentre Paul deve affrontare i miliziani e l’esercito Hutu per riuscire a salvare i Tutsi, ne L’ultimo re di Scozia la vicenda personale incarna maggiormente gli orrori della nazione. Lo spettatore è Nicholas, e si avvicina ad Amin con la stessa serenità, abbagliato dalle capacità di questo nuovo presidente. Anche se i segni di paranoia e violenza ci sono da subito, lo spettatore è con Nicholas quando decide di fidarsi di Amin e lavorare per lui. Nicholas è il perfetto occidentale che arriva in Africa per cercare “un po’ di avventura e di divertimento”. Non capisce che dall’inizio non è più libero, il presidente ugandese lo ha abilmente manipolato, e solo quando vorrà andarsene Amin si rivela: “You cannot leave Uganda”. Nicholas scappava da un padre che non lo considerava, e per questo è stato ammaliato da un altro padre, “il padre dell’Uganda”, da cui ora deve davvero liberarsi. Amin era stato un bamboccio per gli inglesi, e così ora è Nicholas “la sua scimmietta bianca”, simbolo del potere che ha raggiunto e che non vuole mollare. La tragedia di Nicholas, che non può opporsi al volere di Amin, è la manifestazione della tragedia delle migliaia di persone uccise dal dittatore perché oppositori. Per questo motivo qui le scene più forti sono quelle che riguardano direttamente Nicholas e le torture a lui inflitte.
Ecco perché si fugge
In questi film ci vengono mostrati governi fragili, che vivono sul sangue e sugli orrori. Quelli in carica uccidono per mantenere il potere, pensiamo ad Amin ne L’ultimo re di Scozia e ai miliziani Hutu in Hotel Rwanda, mentre i ribelli uccidono per arrivare al potere (i Ruf in Blood Diamond, così come i Tutsi in Hotel Rwanda). A rimetterci, la popolazione civile, alla quale i cambi di governo non portano né benessere, né sicurezza. In tutti e tre i film vediamo cittadini scappare dagli orrori della guerriglia. In Blood Diamond i ribelli arrivano nei villaggi sparando e tagliando mani a ragazzini (“Il futuro è nelle vostre mani? E allora noi ve le tagliamo!”): vedremo in seguito un campo profughi con 1 milione di rifugiati. In Hotel Rwanda, i Tutsi cercano di scappare ma anche quello viene loro impedito. In tutti è presente la figura del giornalista, ma soltanto in Blood Diamond è positiva. La giornalista riesce a dimostrare l’ipocrisia dei governi occidentali che comprano “diamanti insanguinati” pur sapendo che così finanziano lo spargimento di sangue. Ne L’ultimo re di Scozia i giornalisti si lasciano abbindolare dal carisma e dalla simpatia di Amin, esattamente come era successo al dott. Garrigan. Hotel Rwanda ci mostra invece un giornalista sinceramente appassionato del suo lavoro, ma assolutamente conscio del fatto che immagini anche violente e assurde come quelle che ha mostrato non cambieranno nulla.
Un cinema africano costituito, dunque, da due anime: una commerciale con ritmi e logiche industriali, che sfrutta tematiche di massa per incrementare gli utili e mostra un'”Africa soap”, fatta oltre che di luoghi comuni, di veri e propri posti che tutti si ritrovano a frequentare, di amore e odio, rivalità e alleanze, matrimoni e divorzi, sesso e soldi; l’altra, invece, impegnata a sviscerare i motivi profondi del disagio sociale e della fuga dal continente, che entra nell’intimo delle storie personali, per farci vivere quelle situazioni di vita che spingono molti ad andarsene.
L’immagine: la locandina di Hotel Rwanda (2004), di Terry George.
Andrea Spartaco ed Eva Brugnettini
(LMMagazine n. 1, 15 marzo 2008, supplemento a LucidaMente, anno III, n. 27, marzo 2008)