Tenutasi lo scorso maggio a Roma, ha portato una ventata di pensiero fresco sull’esigenza di una riforma del diritto di famiglia in Italia e di un riconoscimento delle forme di convivenza e relazione affettiva non allineate con il matrimonio tradizionale. Stiamo parlando della conferenza Amore civile. Nuove forme di convivenza e relazioni affettive (www.radioradicale.it/amorecivile). In una cornice storica afflitta da un deprimente conformismo, nascono riflessioni intellettuali che sono espressione di un vasto movimento dal basso, mai recepito dalla classe politica, che in questo modo si condanna, insieme alla Chiesa cattolica, a un destino di decadenza.
La conferenza – Ad Amore civile, durata tre giorni, dal 10 al 12 maggio 2008, i giornali italiani, afflitti anch’essi da inevitabile e pruriginoso conformismo, hanno dedicato poco spazio e scarsa attenzione. L’evento, secondo le Aurelio Mancuso, presidente dell’Arcigay, “rappresenta […] un primo buon segnale in una situazione sociale per noi preoccupante”. Esso ha posto al centro del dibattito numerose tematiche come il riconoscimento delle unioni civili, dei legami familiari diversi dalla famiglia nucleare, la coabitazione e la equiparazione dei figli nati dentro e fuori il matrimonio; il problema dei tempi di separazione e divorzio, spesso causa di sofferenze economiche e psicologiche per i figli e per i coniugi; la procreazione assistita e il superamento della legge 40 che preveda una elaborazione e un ampliamento della tanto, purtroppo per noi, ancora contestata legge sull’aborto con una conseguente riformulazione del concetto di individuo nel corpus legislativo. Fra le altre tematiche trattate, anche la violenza in famiglia, specialmente sulle donne, sugli omosessuali e sui bambini, l’adozione da parte di single e coppie more uxorio o composte da persone dello stesso sesso e la riforma della successione testamentaria che, in questo momento, di fatto, vede in tutti coloro che si pongono al di fuori delle forme di convivenza e relazione affettiva tradizionali, pur formando un’ampia fetta della cittadinanza attiva e produttiva, una schiera di cittadini di serie B. Dai giorni della conferenza arrivano dunque importanti riflessioni, schegge che, senza l’ambizione di completezza, possano far riflettere chi legge.
La famiglia e il Babbit italiano – La famiglia oggi in Italia è lungi dall’essere il corpus monolitico richiamato con tanta insistenza da alcuni personaggi della politica e della Chiesa cattolica: essa è, come tutte le realtà sociali, una emanazione di un insieme di comportamenti consuetudinari sentiti come qualificanti di uno stesso gruppo, fa parte di “quell’impasto di valori, esperienze, istituzioni, culture infinitamente composite e contraddittorie, all’interno del quale possiamo e dobbiamo scegliere una tradizione, che non è già data” (Paolo Flores d’Arcais, Hannah Arendt. Esistenza e libertà, autenticità e politica, Fazi Editore, p. 20). Rendere nulla l’aspirazione intellettuale di una vasta piattaforma sociale avente l’obiettivo di cambiare l’aspetto legislativo della famiglia con discorsi che appellano alla tradizione, per poi invocare l’aiuto dello stesso Stato per le “famiglie precarie”, rientra pienamente fra gli atteggiamenti da Babbit europeo già additato da Antonio Gramsci nel quinto dei Quaderni del carcere, modello di comportamento che ricalca “il canonico della cattedrale o il nobilastro di provincia” che gioca, come una vite in un buco spanato, fra il realismo più retrivo e la modernità. Inoltre, tale atteggiamento diventa il canto di una creatura ormai in estinzione che “non lotta col suo filisteismo ma si crogiola e crede che il suo verso, e il suo qua-qua da ranocchio infisso nel pantano sia un canto da usignolo” (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere. I. Quaderni 1-5 (1929-1932), Einaudi) e “soffoca e preclude l’ambito della singolarità, lo spazio dell’azione in cui il carattere irripetibile […] dell’esistenza può trovare modo di esprimersi” (Paolo Flores d’Arcais, op. cit., p. 29) senza permettere il confronto fra le forme del diritto di famiglia attualmente conservate in Italia e l’effettiva nuova famiglia esistente.
Distanze fra Costituzione e Codice civile – Bruno de Filippis, membro della Conferenza per la riforma del diritto di famiglia (per ascoltarne l’intervento cliccare su Presentazione dei risultati del convegno dal titolo: “Amore civile. Nuove forme di convivenza e relazioni affettive”), spiega come il diritto di famiglia sia attualmente palesemente in contrasto con i principi della Costituzione italiana che è e deve essere posta al primo posto nei pensieri del legislatore. Le distanze fra Costituzione e Codice civile sono state, fino al 1975, anno di una prima riforma del diritto di famiglia, paradossali e quasi insanabili poiché, se la Costituzione italiana all’Articolo 3 parla del principio di non discriminazione, per 28 anni nel Codice civile permanevano marcati segni di discriminazione, per esempio, fra la donna e l’uomo all’interno del nucleo familiare, del quale l’uomo, a dispetto dell’uguaglianza sancita dalla Carta costituzionale, rimaneva il capo, o fra i figli nati dentro e fuori dal matrimonio, per i quali rimaneva l’ombra medievale delle “due N” poste prima del cognome del padre o della madre. I lavori del 1975 hanno dunque a suo tempo svecchiato il Codice e adeguato l’opera del legislatore ai principi laici dello stato che, ricordiamo, prendono forma il 22 dicembre 1947 con l’approvazione di una Costituzione democratica da parte dell’Assemblea costituente che, interpretando la sete di libertà e giustizia che emergeva dalla barbarie della guerra, sanciva davanti alla storia italiana il cardine della modernità, ovvero: “Diritti inviolabili dell’uomo e doveri inderogabili di solidarietà; uguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (la citazione è tratta dall’Intervento del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della celebrazione della Festa della Liberazione).
L’esigenza di cambiare – A distanza di ormai molti anni da quel dicembre del 1947, e alla luce di un evidente cambiamento nei rapporti sociali, affettivi e interpersonali, nasce l’esigenza di una ristrutturazione del codice in fatto di famiglia che si porta ancora dietro una eredità dei tempi in cui nacque e che in nuce possiede dunque la caratteristica di flessibilità che deve permettere a chi applica i suoi articoli di non dover ricorrere a cosiddette leggi speciali, ma di poter fare riferimento in modo sicuro, e senza ritardi e incertezze, a disposizioni al passo coi tempi. Poiché il diritto appartiene a tutti, è auspicabile che situazioni come le tematiche della filiazione o la realtà del divorzio e delle coppie di fatto e omosessuali, siano registrate dal Codice civile non solo per realizzare l’Articolo 3 della Costituzione e permettere l’accesso di tutti gli strati della popolazione alle nuove forme di famiglia e convivenza, ma anche per permettere alla magistratura di realizzare in modo sereno e compiuto una prassi della legge in un contesto di consenso sociale di cui lo stesso Stato necessita per non basare la sua stessa esistenza su una coercizione a dir poco impensabile in una società democratica. In poche parole, conveniente sarebbe per lo Stato, di qualunque colore esso sia, assecondare i cambiamenti richiesti da una grande fetta insoddisfatta di popolazione, poiché assecondando tali richieste non solo non scontenterebbe la parte contraria, che rimarrebbe titolare dei diritti acquisiti, ma guadagnerebbe consenso da uno strato di popolazione finora tenuto fuori dal meccanismo della massa del cui controllo lo stesso Stato ha bisogno.
La nobiltà del relativismo – L’accusa di relativismo, spesso associato all’utilitarismo, è una delle maggiori critiche che il capo della Chiesa cattolica esprime sull’introduzione di cambiamenti e nuove norme che reggano il passo con le rinnovate forme di amore e famiglia e con le tendenze della stessa Europa: si pensi alla Spagna di Zapatero che in pochi anni si è emendata dall’ombra realista di Fernando, Isabella e Filippo II e che ha reso il paese di Juan Carlos I una terra in cui monarchia e modernità vanno perfettamente d’accordo. In realtà parlare di relativismo è in questo caso – maggiormente nel caso di uno studioso di filosofia quale papa Benedetto XVI, formidabile erudito che conosce senza dubbio il significato di una categoria filosofica – un abuso concettuale porto all’opinione pubblica non solo con intenti retorici che appartengono alla captatio benevolentiae, ma anche con scopi più pratici legati all’ottenimento del consenso, alla formazione della massa, al recupero di un ruolo preminente nella società, ormai perso, e alla ricerca di “commessi” che esercitino le funzioni subalterne dell’egemonia sociale ipoteticamente ritrovata (associazioni, giornalisti della stampa e della televisione, medici obiettori, ecc.). In realtà il relativismo va oltre l’affermazione eristica che “ogni cosa è vera” e nega l’esistenza di verità assolute ponendosi l’obiettivo di vagliare e analizzare una verità, non la verità, con un occhio di particolare riguardo per il contesto o la persona che abbia eventualmente sostenuto una certa tesi. L’esistenza di tante verità, tutte analizzabili e discutibili, non significa però che se ne contempli la contemporanea attuazione – sarebbe infatti la più alta forma di follia -, ma solamente che teoricamente, e in fase di dibattito, si assegni a queste verità una pari dignità e importanza. L’attuazione di un pensiero passa invece attraverso la discussione, che implica la parità di autorità nel dibattito, l’azione e l’organizzazione. Proprio il primo passaggio di questa triade, la discussione, implicante la parità di posizioni rispetto agli altri attori del dibattito, rappresenta per la Chiesa cattolica una difficoltà insormontabile, poiché, quantunque si riconosca ad essa un ruolo importante nel dialogo etico e morale, essa non risulterà che “uno dei tanti” attori del dibattito e non il depositario della verità rivelata.
Chiesa e società civile – Questo avviene perché la Chiesa cattolica si pone come erede di una tradizione, di un mito che, come tutti i miti, non può essere discusso ma solo accettato con il suo bagaglio di preminenza. Tuttavia, nel rispetto dell’Articolo 3 della Costituzione italiana e del Concordato lateranense del 1929 , lo Stato non può che concedere alla Chiesa che il solo ruolo di interlocutore, uno dei tanti interlocutori, e “la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione. In particolare è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica” (Legge 25 marzo 1985, n. 121). Quello che pertanto esprime papa Benedetto XVI con il suo continuo obliquo riferimento al relativismo non è solo una lodevole richiesta di maggiore ascolto dei principi di amore e solidarietà fra gli uomini, ma è in realtà una rincorsa senza speranza di una preminenza sociale della stessa Chiesa cattolica che il mondo, in questo caso lo Stato, non può più accogliere perché basato su criteri di organicità e politica che prevedono che la stessa società sia frutto di scelte consapevoli dell’uomo organizzato e non emanazione di un pensiero rivelato attraverso un organo estraneo allo stesso Stato. La società, in quanto insieme di individui differenti, può dunque accogliere il messaggio del pontefice come spunto fra i tanti spunti, come riflessione fra le tante riflessioni, come verità fra le tante verità, e dunque agire e scegliere dopo aver considerato la possibilità di accesso di ogni membro attivo alle forme di vivere civile dello Stato. Appare pertanto chiaro che quando la Chiesa si ponga contro l’accesso di una sola parte della società alle forme di vivere civile, si pone in maniera chiaramente politica contro l’Articolo 3 della stessa Costituzione italiana. La Chiesa, inoltre, ponendosi all’interno di un dibattito in cui tante verità sono poste sul piano della dialettica, si rende partecipe essa stessa di un sistema relativista che si esprime attraverso i mass media dei quali la stessa Chiesa si serve per esercitare la sua posizione nella querelle. Combattere contro il relativismo è, da parte della Chiesa, un modo di aver la botte piena e la moglie ubriaca, ovvero, citando ancora Gramsci, utilizzare tutti i benefici che il relativismo moderno produce, pur mantenendo il suo primato tradizionale e anzi promuovendo azioni con l’intento di ampliarne la gittata sul modello della Chiesa del periodo risorgimentale.
Bibliografia minima
– Paolo Flores d’Arcais, Hannah Arendt. Esistenza e libertà, autenticità e politica, Roma, Fazi Editore, 2006.
– Antonio Gramsci, Quaderni del carcere. I. Quaderni 1-5 (1929-1932), Torino, Einaudi, 2001.
Il presente articolo, in forma leggermente diversa, è stato pubblicato anche su L’Ateo, bimestrale dell’Uaar, n. 5/2008.
L’immagine: il logo della conferenza Amore civile.
Matteo Tuveri
(LucidaMente, anno III, n. 35, novembre 2008)