Un rapporto a due (e più) fondato, con la scusa dell’“essere alternativi”, sulla sottomissione della donna. “Il viaggio sessuale di Beatrice”, un racconto di Diana Tomino
Quando incontrai per la prima volta Alberto mi sembrò il tipico omosessuale di provincia banalizzato e stereotipato. A incuriosirmi furono i suoi pantaloni troppo corti e le sue scarpe, spropositatamente lunghe per quelle gambine esili; visto da lontano sembrava vestito con materiale di scarto, antico, inadeguato, su cui spiccava, in netto contrasto, una faccia da bimbo buono, da cocco di mamma. Io, da buona fan di Dawson’s Creek, innamorata di Jen Lindley, “l’amica dei gay”, e attratta dai contrasti netti del mio mondo o bianco e nero, non riuscivo a smettere di cercarlo, di fissarlo. E non certo perché volessi “cambiarlo”.

La mia Beatrice, quella sera, aveva alzato un po’ il gomito, aveva vomitato sulla tenda nuova della doccia, aveva raccontato i suoi disagi sessuali, si era liberata e volava come un pulviscolo nel vento: si sentiva leggera, potente, invincibile… Ma che cerchio alla testa il mattino dopo, quando le prime parole, ancora impastate di Jägermeister e vomito, furono: «Non è successo niente, vero?». Lui era nel suo letto, con il suo pigiama, e tra loro si strinse un patto di mutuo annullamento, di complice perdizione tra droghe, alcool e sesso, sesso insano, estremo, umiliante…

Seguirono tante altre scene, tutte simili a questa. Cambiava soltanto il protagonista: il divano della discoteca, il sedile posteriore di un’auto… E Bea “doveva” accettare quell’unico modo, quell’unico sistema che riusciva ad accendere la passione di Alberto Finirono così cene, feste, gite, e Beatrice pian piano allontanò tutti gli amici, specie le ragazze bruttine, perché quelle facili prede erano le favorite di Alberto Il quale, più la umiliava in pubblico, più cercava, con sempre meno ardore, di soddisfarla in privato.

Con questo sfondo iniziò “l’incubo del sabato sera”: ogni sabato Bea era “costretta” a guardare per ore e ore, spesso fino a notte fonda, filmati pornografici, facendo finta di bere l’ennesima birra in sua compagnia. I filmati andarono sempre più spesso verso il fetish, lui si appassionò al fist fucking estremo e lei iniziò ad avere paura. Ma a lui serviva perché dopo “faceva bene l’amore” e Bea non trovò altra soluzione che non fosse dire: «Vero, è bello questo rapporto così aperto, sincero, senza maschera, ma io intanto cucino, così, quando vuoi, è tutto pronto». Dopo qualche sera lui annunciò, con il suo solito fare trionfante e scenografico: «Merdina, ho fatto la spesa!». La busta del supermercato era sul tavolo e sembrava un po’ piccina, esigua, ma era un inizio… intanto si era alzato dal divano. L’idea di Alberto non era però la stessa di Bea, quelle compere non erano per la cena: «Ti prego, ciccia, dimmi di sì una sola volta, faccio le foto e poi non te lo chiedo più!». La mia piccola guida non accettò di farsi infilzare come un pollo allo spiedo e le cose tra loro peggiorarono.

Alberto, con la sicurezza di chi tutto conosce, invece di risalire in macchina, fece qualche metro in avanti e poi girò a destra. Si ritrovarono in un boschetto: la base degli alberi non si vedeva, c’erano preservativi usati, fazzoletti sporchi e lembi di riviste pornografiche in concentrazioni industriali. Videro quattro alberi nel loro percorso e, più si inoltravano nel bosco, più aumentavano la spazzatura e la puzza, un odore che stringeva lo stomaco di Beatrice, ormai in preda alla nausea. Sbucarono in una sorta di prato e videro spuntare, separatamente, tre individui, che fecero loro una muta richiesta. Lui fece segno di no con la testa e quelli andarono via: erano guardoni. Erano in uno spazio aperto, ma la puzza e la nausea aumentavano esponenzialmente e, mentre lui cercava di scendere verso quella spiaggia dove tutti “trombano” con tutti, tutti guardano tutti, tutti possono tutto “previo consenso” degli interessati, Bea, nonostante i guardoni, nonostante la pericolosità dell’ambiente, si girò e gridò: «Io me ne vado!». Corse tanto Beatrice, incurante delle spine, pestando i preservativi, si fermò solo quando raggiunse la macchina, si appoggiò al cofano e vomitò. Avrebbe aspettato lì senza chiavi, acqua e cellulare anche tutto il giorno. Si sedette a terra e cercò di pulirsi la bocca con la maglietta e vide un fazzoletto di carta. Non si era accorta che lui era lì Le disse: «Che maiali, dovrebbero cercare di tenerlo pulito ’sto posto, così fa schifo… non ti viene di farci niente!».

Dopo una cena a casa mia scoppiò una strana serenità tra loro, lui riprese a uscire, a lavarsi e smise di guardarla come una donna e di “costringerla” al sesso. Sembrava un buon equilibrio fino a quando Bea tornò dal lavoro, con il solito programmato ritardo, e trovò la tavola apparecchiata, una bistecca troppo cotta nei piatti e lui gioviale, come quando erano solo amici. Inutile dire che ancora una volta Beatrice si era illusa. Alberto voleva festeggiare con lei “rendendola partecipe” della propria felicità: erano infatti due settimane che aveva una storia di solo sesso con il mio vicino di casa e aspirava che Bea partecipasse ai loro giochi o che almeno li guardasse mentre facevano l’amore, perché lui si sentiva in colpa nell’escluderla. Non avendo ricevuto risposta positiva, lui chiuse la storia e tornò a tormentare la mia amica.
E
Queste righe raccontano una storia vera, anche se non sono scritte con il linguaggio della cronaca perché c’è di mezzo il cuore e sono diventate, ahimè, una sorta di messaggio nella bottiglia. Sono passati tanti anni e tanti numeri telefonici e io non ho più visto la mia Beatrice. Spero che lei legga questo racconto e si faccia viva. Vorrei solo sapere se sta bene, se ha capito che prima di amare bisogna amarsi, se è, nonostante tutto, serena… Vorrei stringerla tra le braccia e dirle: «Ti voglio bene, io te ne ho sempre voluto».
Le immagini: modalità varie di fist fucking e Venere e Cupido addormentati e spiati da un satiro (1524‐1525 circa, olio su tela, 188,5×125,5, Parigi, Musée du Louvre) di Antonio Allegri detto il Correggio (Correggio, 1489 – Correggio, 1534).
Diana Tomino
(LucidaMente, anno VIII, n. 89, maggio 2013)