Quali sono i principali motivi, consci e inconsci, che spingono milioni di persone a manipolare in maniera permanente il proprio corpo?
Perforarsi la pelle può essere una scelta determinata da diversi elementi: dal condizionamento di fattori esterni, da un impulso interiore di comunicazione sociale oppure dal voler imprimere fisicamente il ricordo di un’importante evoluzione personale.
La funzionalità estetica e decorativa del tatuaggio si manifesta già nell’Inghilterra dei primi del Novecento. Questo è stato possibile grazie ai rapporti commerciali che spinsero la corona inglese sino alle terre dell’Oceania, luoghi in cui le popolazioni indigene usavano già incidere la pelle. Così, grazie al contatto con culture esotiche, l’idea relativa alla natura del tatuaggio ha acquisito interesse presso l’immaginario dei britannici. Si è fatta perciò tendenza ed espressione incancellabile di un messaggio. Una moda introdotta prima di tutto nei salotti dell’alta società, come già accennato nel nostro precedente articolo Professione tatuatrice. La storia culturale inglese è dunque diversa da quella dell’Italia, che negli stessi anni non dimostra il medesimo interesse per le modificazioni corporee. Ciò, però, non ha impedito agli italiani di recuperare e di essere, oggi, in quasi sette milioni di tatuati, di cui mezzo milione sono ragazzi tra i 12 e i 17 anni. Nel libro Piercing e tatuaggio. Manipolazioni del corpo in adolescenza (Franco Angeli, pp. 144, € 18,00), gli psicologi Gustavo Pietropolli Charmet e Alessandra Marcazzan si sono chiesti che cosa spinga i giovani a modificare il proprio aspetto.
Nel volume in questione viene precisato come nell’età della pubertà messaggi e contenuti profondi si esternino non per mezzo dell’elaborazione ed espressione dei propri pensieri, ma attraverso gesti e comportamenti sociali. In questo modo il disagio, tipico di quella fascia generazionale, passa per il corpo. Un corpo che, dopo essere stato modificato così irreversibilmente e dolorosamente (con il tatuaggio) vuole dichiarare un’identità evoluta e non più infantile. La necessità di «riconoscersi, di appartenenza e di differenziazione si esprime […] nel campo delle scelte in apparenza puramente estetiche e commerciali, relative alla moda».
È ovvio, perciò, che il tatuaggio renda il fisico differente da come sarebbe in natura e funge da avvio a una sorta di comunicazione possibile proprio grazie a quei segni fissati sulla pelle. Segni di cui la cultura si nutre. L’individuo diventa così «parte attiva del corpo sociale». Oltre a questa possibile funzione, ce n’è un’altra più logicamente deducibile: segnare mentalmente, fisicamente ed emotivamente le tappe importanti per la crescita del soggetto. Dunque, il linguaggio simbolico consente di manifestare un processo di trasformazione personale interiore. Una pratica che può essere intrapresa a qualsiasi età, non solo dai teenagers. Sempre lo stesso libro sopracitato evidenzia, inoltre, come il disegno (inciso) offra concretezza a momenti cruciali del vissuto affinché non siano più solo ricordi (materia effimera).
Oggi, comunque, non bisogna sottovalutare il fattore “tendenza”. Il semiologo Paolo Fabbri (al Festival della Comunicazione a Camogli, nel settembre 2017), parlando del concetto di “moda”, sottolinea come questa osservi la collettività, guardi ai margini del sociale e li porti all’attenzione: «tutto il marginale viene rimesso al centro e diventa un problema di moda». In questo processo, però, il tatuaggio si è probabilmente allontanato dalle funzionalità iniziali. L’aspetto mistico e rituale si è affievolito, in favore d’intenti esplicitamente trasgressivi o di scelte compiute per emulare i propri idoli di rifermento. Purtroppo, vi è il rischio che il ruolo dell’esteriorità arrivi a essere svuotato di ogni senso perché esasperato dall’odierna cultura dell’immagine.
Arianna Mazzanti
(LucidaMente, anno XIII, n. 155, novembre 2018)