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Home IL LABORATORIO

«Il vecchio cadde in ginocchio»

Dalla redazione by Dalla redazione
7 Agosto 2012
in IL LABORATORIO, ON AIR / CONSIGLI AL VOLO / PUBBLIREDAZIONALI
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“Come se divorasse il seno della madre…”
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Nel racconto “L’inconsapevole peso del ricordo” di Jordi Penner, un’apparizione improvvisa turba il quieto vivere dell’anziano Alfonso, svelando…

Proseguiamo con il seguente racconto la pubblicazione dei migliori lavori (vedi anche «E chi cazzo si porterebbe un seminarista in giro per Bologna?») emersi al termine del Corso di scrittura creativa, organizzato dalla nostra rivista a Bologna tra aprile-giugno 2012 e tenuto, tra gli altri, dallo scrittore Roberto Pazzi, due volte finalista al Premio Strega.

La forchetta, come al solito, era perfettamente allineata al bordo destro del tavolo, l’acqua bolliva sul fuoco in una pentola di rame, il pendolo era fermo, chissà da quanto tempo. Il vecchio Alfonso aprì la porta permettendo così alla luce di invadere la stanza. Le consumate pareti in legno sembrarono risplendere di nuova vita. La figura che si stagliava al varco era quella di un uomo massiccio, le spalle leggermente incurvate e l’espressione serena di chi si crede felice.

Raggiunse la credenza, dove raccolse gli occhiali che qualche tempo prima aveva lasciato. Dopo averli inforcati, andò a sedersi sulla poltrona a dondolo, che lo accolse con un lieve scricchiolio. Cominciò così a lasciarsi ondeggiare piano piano, come a salutare quella vecchia amica che per tanti anni aveva accompagnato le sue letture.

Qualcosa però passò oltre la finestra alla sua sinistra, attirando la sua attenzione. Il relax malinconico che lo cullava svanì nel nulla per lasciar posto alla novità.
Chi mai passava proprio di fronte alla sua casetta isolata? E per di più nel suo giardino? Incuriosito, un po’ a fatica, ma con la forza mai appassita dagli anni grazie alla costante attività fisica, si alzò, raggiunse la finestra e l’aprì. Di lì vi scorse un bambino dall’espressione bizzarra, gli occhi persi nel vuoto, immobile.
Alfonso chiese allora: «E tu? Che cosa fai di bello lì?».
Il bambino rimase a guardare dritto di fronte a sé, senza rispondere.
«Mi capisci?» chiese il vecchio dolcemente, parlando più lento.
Lo sguardo del bambino schizzò verso quello del vecchio e vi si riversò gelido quanto quello di un boia. Guardandolo così, il bambino fece due passi avanti, come per farsi riconoscere.

«Magari da più vicino, eh?» disse il vecchio a mo’ di frase retorica, ridendo sommessamente.

Il bimbo continuava a fissarlo vacuo. Solo in quel momento Alfonso notò che i suoi vestiti, che a prima vista potevano sembrare vestiti sportivi qualsiasi, erano consumati e scoloriti dal sole, come d’altronde la sua stessa pelle.
Alfonso immaginò che potesse avere fame, così gli chiese mimando con le mani: «Vuoi mangiare un boccone? Sto cucinando proprio ora».
Il bimbo allora guardò indeciso le mani del vecchio e dopo un breve ragionamento scrollò la testa.
«Non ti faccio mica del male» disse pacificamente il vecchio. Attese una reazione, ma il bambino continuava a fissarlo senza espressione.
«Aspetta un attimo» propose allora, facendogli ancora una volta segno dalla finestra, quindi uscì di casa e andò dal bambino. Una volta da lui gli poggiò una mano sulla spalla e disse: «Dai, vieni dentro, è quasi pronto». Il bambino riluttante si scrollò la mano di dosso e fece un passo indietro, guardando il vecchio con astio.
«E che vorrai mai allora?» domandò Alfonso, ormai convinto di non poter essere capito.
«Facciamo così,» continuò, mimando ancora le proprie parole, «tu aspetta qui, ti porto fuori un piatto e te lo mangi dove vuoi, d’accordo?».
Ancora una volta il bambino non ebbe alcuna significativa reazione.

«Sembra di parlare con un muro. Lo sai questo, ragazzino?» borbottò Alfonso rientrando.

Convinto di essere solo, si diresse allora verso i fornelli, diede una girata alla pasta e la assaggiò per verificarne la cottura. Al dente al punto giusto, pensò, prese allora le manopole per non scottarsi, alzò la pentola e si girò per raggiungere il lavandino che stava all’altro angolo della stanza. Con sua sorpresa il bambino era lì, seduto al tavolo che lo fissava nuovamente. Gli fece fare un salto che per poco non ribaltava l’acqua bollente dappertutto.
«Un fantasma avrebbe fatto più rumore, piccolo» commentò Alfonso, ora scuotendo la testa mentre raggiungeva il lavandino. Versò la pasta nello scolino, la fece saltare alta nell’aria riprendendola al volo più volte per divertire il bambino, che lo guardava però sconcertato.
«Oh, insomma! Sei ben strano tu, eh?» protestò bonario Alfonso.
Riversò la pasta ben asciutta nella pentola, ci versò sopra il sugo che nel frattempo aveva cotto ben bene, mescolò, suddivise il tutto in due piatti e servì in tavola.

Il bambino non guardò neppure la pietanza che si ritrovava di fronte, mentre il vecchio si sedeva sul lato opposto del tavolo, studiandone lo strano atteggiamento.

Il vecchio vide che il bambino continuava a non mangiare. Prese allora una forchetta per mostrargli come si faceva. Ma il bambino rise sarcasticamente, scostò il piatto, scese dalla sedia, andò dal vecchio e prese a tirarlo per la camicia indicando l’uscita.
«Eh, no, eh! Adesso mi lasci finire il mio piatto di pasta» disse. Tuttavia il bambino, invece di scoraggiarsi, lo esortava con più forza.
«Ma dove vuoi che vada? Non c’è niente là fuori!».
Il bambino stava per mettersi a piangere dalla disperazione mentre continuava a strattonare la camicia. Il vecchio Alfonso allora sbuffò, posò la forchetta e acconsentì: «E va bene, va bene! Lascia almeno che copra i piatti».
Si alzò, il bambino lo guardò prendere dall’anta sopra il lavandino altri due piatti con i quali coprire quelli pieni e rise innaturalmente. Poi lo agganciò nuovamente per la camicia e lo trascinò fuori.

Alfonso lo segui allora di malavoglia lamentandosi: «Ma dove mi vuoi portare?».

Il bambino tirava e tirava trascinandolo fin oltre lo steccato. Risalirono la verde collinetta risplendente del fulgore di mezzogiorno. Giunti allo spiazzo in cima si poteva scorgere poco più in là una fitta pineta, tanto fitta che la luce pareva non riuscire a penetrarvi.
Alfonso allora ebbe come un vago ricordo che non riusciva a focalizzare, una sensazione cruda, pungente, spaventosa, gli corse lungo la colonna vertebrale. L’istinto gli diceva che non doveva andare là dentro, ma il bimbo era deciso e ce lo tirò dentro a forza.
«N… no, no» borbottava il vecchio, ora trafitto da un anonimo terrore. Immagini scomposte gli attraversavano la mente come lame a doppio taglio lanciate da una parte all’altra del cranio. Camminarono per una cinquantina di metri nel fitto del bosco fino ad arrivare nei pressi di un cespuglio di ginestre cresciuto proprio sotto a un’alta e imponente parete di roccia. Il bambino tirava e indicava freneticamente quel cespuglio.
«Non voglio, ti prego» piagnucolava ora Alfonso «lasciami in pace».

Ma il bambino tirava con più forza e lo costrinse ad arrivare fin lì.

L’odore era terribile, di sangue rappreso e decomposizione. Il vecchio si coprì il naso avvicinandosi. Il bambino scostò le fronde, Alfonso si coprì gli occhi e si voltò dall’altra parte gridando: «No, nooo, non sono stato io! Non sono stato io! Lasciami stare!».
Il bambino gli andò di fronte per fissarlo rabbioso. Provò a spingerlo con la forza, per quel che poteva, verso il cespuglio. Il vecchio borbottava ancora sommessamente «no, no, lasciami stare!», piagnucolando, ma il bambino insistette finché, finalmente, lo sguardo del vecchio non si alzò nella direzione che il dito del bambino indicava. Il bambino smise allora di pressarlo e contemplò a sua volta il macabro spettacolo, ovvero il suo stesso corpicino esanime, nudo, segnato dai colpi di una violenza inaudita. Il vecchio cadde in ginocchio sovrastato dalla disperazione e pianse. Balbettava ora parole come una litania: «Tanto solo… ero tanto solo. Tanto solo».
Allora il bambino guardò nuovamente il vecchio dritto negli occhi e per la prima volta, con voce ferma e sconcertata, parlò:

«Perché?», chiese. «Perché?».

Il vecchio gli strinse le caviglie implorando perdono. Il freddo innaturale che emanavano gli provocò tanta repulsione non solo da fargli ritrarre le mani, ma perfino da stimolare dolorosi conati di vomito. Si lasciò cadere a terra e rimase così rannicchiato, piangendo disperatamente per un tempo che parve infinito.
Si alzò poi sulle sue gambe, si voltò e prese a vagare senza meta nel bosco, balbettando parole sconnesse, le lacrime impossibili da fermare.
Si ritrovò sulla cima della collina quando il sole stava ormai tramontando, come risvegliato da un brutto sogno. Si chiese perché mai fosse lì, non ricordava. Sarà l’età, pensò sospirando.
Guardò allora in alto, verso il cielo che arrossava, studiò per qualche secondo il movimento delle nuvole.

Concluse che l’indomani sarebbe stata, molto probabilmente, un’altra splendida giornata di sole.

Le immagini: Bambina con uccellino morto (Scuola olandese?, sec. XVI, olio su legno, 36,7 x 29,8 cm, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles) e varie foto di repertorio.

Jordi Penner

(LucidaMente, anno VII, n. 80, agosto 2012)

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Tags: bambinofantasmapennerpesoraccontoricordosanguevecchioviolenza
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