La sorte senza speranza degli ergastolani ostativi (cioè senza alcun beneficio di legge) raccontata da Mario Trudu
Sono nato l’undici marzo del 1950 ad Arzana, in Sardegna, nella provincia dell’Ogliastra. Mi trovo in carcere dal maggio del 1979 con una condanna all’ergastolo. Scrivendo questo testo non lo faccio pensando di poter ottenere qualcosa, ma per informare, perché qualcuno in più venga a conoscenza della situazione in cui si trovano le persone che sono recluse, come me, con una condanna all’ergastolo ostativo. Siamo coloro che ogni giorno affrontiamo la nostra tragedia, la nostra vita senza speranza, eppure, lottiamo e combattiamo per una vita migliore. Mi preme dire a coloro che si trovano nella mia medesima situazione, e verso coloro che eventualmente vi si troveranno in futuro, che bisogna fare qualcosa.
Troppo spesso si sente parlare di certezza della pena, ma occorrerebbe parlare di certezza della morte, perché in Italia chi è condannato alla pena dell’ergastolo ostativo può essere certo che la propria morte avverrà in carcere. Spesso si sente nei salotti televisivi qualche politico che batte i pugni sul tavolo inneggiando alla certezza della pena. A questi vorrei gridargli in faccia che la mia pena è talmente certa da giungere fino alla morte. Solo certe menti malate e distorte possono riuscire a superare l’insuperabile.
Non si può introdurre, com’è stato fatto nel 1992, la norma dell’art. 4 bis Ordinamento Penitenziario (che nega i benefici penitenziari se non metti un altro in cella al posto tuo) e renderla retroattiva, applicarla cioè a reati commessi diversi lustri prima. Lo stesso vale per l’art. 58 ter O.P. (persone che collaborano con la giustizia), uno scempio per uno stato che si definisce di diritto. Da quando nell’Ordinamento Penitenziario è stato introdotto questo articolo, se vuoi ottenere i benefici penitenziari, sei obbligato a “pentirti”, lasciando in questo modo che si dimentichi che rieducarsi (se errori ci sono stati in passato) non significa accusare altri, ma cambiare dentro di sé. Il pentimento che pretendono loro è l’umiliazione. Per loro collaborazione significa perdita di dignità, fuoriuscire dalla sfera umana. Come può collaborare chi ha è stato vittima di processi compiuti con la roncola nei cosiddetti periodi di “emergenza” in cui contava solo la parola dell’accusa e in cui i testimoni della difesa venivano sistematicamente arrestati e processati anche loro? L’Italia, dagli anni Ottanta a oggi, pare essere un paese in emergenza perenne.
Si può negare a un condannato all’ergastolo, dopo che ha scontato già trent’anni di carcerazione, la possibilità di ottenere un permesso? Il 2 settembre del 2009 il Tribunale di Sorveglianza di Perugia, a una mia richiesta di tramutare la mia condanna all’ergastolo in pena di morte (da consumarsi con fucilazione in piazza Duomo a Spoleto) ha risposto così: “Poiché la pena di morte non è prevista dall’Ordinamento né ammessa dalla costituzione, si dichiara inammissibile l’istanza in oggetto”. All’ergastolano viene dunque proibito anche di scegliere di morire perché si vuole che affronti la vendetta dello Stato fino all’ultimo dei suoi giorni.
Io ho sempre creduto che gli unici che avrebbero potuto pretendere vendetta nei miei confronti fossero la famiglia dell’uomo cui ho fatto del male. Solo loro credo che possano fare e dire tutto ciò che vogliono nei miei confronti, ne hanno tutti i diritti. Sicuramente trent’anni di carcere formano un altro uomo, perché, oltre ai valori ed abitudini che già possiedi, ne assorbi altri e rielaborandoli ne ricavi una ricchezza. La pena dell’ergastolo per chi la vive come me, è crudele e più disumana della pena di morte, perché quest’ultima dura un istante e ha bisogno di un attimo di coraggio, mentre la pena dell’ergastolo ha bisogno di coraggio per tutta la durata dell’esistenza di un individuo, un’esistenza disumana che rende l’uomo “schiavo a vita”. Occorre prendere coscienza che l’ergastolano ha una vita uguale al nulla e, anche volendo spingere la fantasia verso previsioni future, resta tutto più cupo del nulla.
Si parla spesso del problema delle carceri, ma non cambia mai nulla (o forse qualcosa cambia in peggio e il problema del sovraffollamento delle carceri lo dimostra). I suicidi nelle carceri sono proporzionalmente in numero maggiore di diciassette volte rispetto a quelli che avvengono nel “mondo esterno”. I “signori” politici dovrebbero pensare veramente per un attimo al disgraziato detenuto che non può morire in carcere per vecchiaia. Parlo dei politici perché la responsabilità è loro, perché, se la legge del 4 bis non viene cambiata, siano consapevoli che noi ergastolani ostativi dal carcere non potremo uscire mai: che diano risposta a questa domanda questi “signori”!
Sto sognando, lo so! Purtroppo un ergastolano può solo sognare.
Fino ad oggi la mia trentennale carcerazione è stata interrotta da soli dieci mesi di latitanza (periodo che va da giugno del 1986 ad aprile del 1987). Venti anni fa entrai nei termini per poter usufruire dei benefici penitenziari e da allora ho iniziato a presentare diverse richieste per poterli ottenere, ma sono state respinte sistematicamente tutte fino a quando nel 2004 mi venne concesso un permesso con l’art. 30 O.P. (otto ore libero, senza scorta) per partecipare alla presentazione di un cd-rom sulle fontane di Spoleto, realizzato in carcere da noi alunni del quarto anno dell’Istituto d’arte. Trascorsi quelle ore di permesso a Spoleto insieme ai miei familiari venuti appositamente dalla Sardegna, e in compagnia di alcuni professori. Nel novembre del 2005 mi fu concesso un altro permesso, questa volta di sette ore, per la presentazione di una rivista sui vecchi palazzi di Spoleto, che avevamo prodotto in carcere. Trascorsi quelle ore a Perugia sempre con i miei familiari. A questo punto mi ero convinto che il fattore di pericolosità sociale attribuitomi fosse oramai decaduto e di conseguenza mi illusi che, di tanto in tanto, mi sarebbe stato concesso qualche permesso utile a curare gli affetti familiari. Purtroppo non fu così, perché dopo quell’ultimo permesso tutte le mie richieste furono respinte.
Iniziai a questo punto a chiedere con insistenza un trasferimento in un carcere della mia regione di appartenenza, affinché i miei familiari potessero avere meno disagi a ogni nostro incontro, ma nulla da fare: la prima richiesta fu rifiutata e le successive non ebbero mai risposta. Ho presentato a più riprese richieste di permesso necessità per poter andare a far visita a mia sorella che non vedo dal 2004 e che non si trova in condizioni di poter affrontare lunghi viaggi, ma anche queste vengono negate motivando che lei non si trova in pericolo di vita. Sono contento che mia sorella non sia in pericolo di vita. Sono state tante le mie richieste per un avvicinamento a colloquio al carcere di Nuoro, dove mi sarebbe stato possibile incontrare mia sorella, l’ultima l’ho presentata il due maggio 2011. Ma non mi hanno ancora risposto.
Per avere un quadro completo del dramma-carcere, con tabelle e considerazioni varie, si legga Pianeta Carcere: un sistema vicino al collasso totale di Antonio Antonuccio, apparso in due parti nei numeri 33 e 34 (aprile e maggio 2012) di Excursus: http://win.excursus.org/attualità/AntonuccioPianetaCarcerePartePrima.htme http://win.excursus.org/attualità/AntonuccioPianetaCarcereParteSeconda.htm.
L’immagine: tavola XI (L’arco con la conchiglia) de Le carceri d’invenzione (1745-1750, incisioni) di Giambattista Piranesi (Mogliano Veneto, 1720 – Roma, 1778).
Mario Trudu (ergastolano ostativo, carcere di Spoleto)
(LucidaMente, 22 agosto 2011)
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