Il caso dei cappellani militari, con due stipendi (e pensioni) pagati entrambi dallo Stato italiano
Doppio incarico e doppio stipendio. No, non stiamo parlando della casta politica, contro i cui privilegi l’opinione pubblica – per quello che conta – preme su un governo che chiede austerità ai soliti noti, bensì dell’elite dei cappellani militari, l’ennesima stortura italiana che vede la religione (cattolica) inserita a pieno titolo tra le mansioni pubbliche.
Per fornire assistenza religiosa ai militari, gli aspiranti cappellani frequentano un seminario specifico e ottengono da una parte l’ordinazione presbiteriale (il titolo di prete, per intenderci), dall’altra la qualifica di tenente. Vengono così inseriti, previa consultazione tra Santa Sede e Governo, sia nei ranghi della Chiesa sia in quelli degli ufficiali dell’esercito; due incarichi, quindi, e due stipendi, pagati entrambi dallo Stato italiano. Il primo indirettamente, attraverso i fondi dell’otto per mille di cui beneficia la Cei (Conferenza episcopale italiana), il secondo direttamente, come avviene per tutti i militari italiani. E la duplice carriera va avanti di pari passo. Il cappellano semplice è tenente, il cappellano capo è capitano, il 1º cappellano capo è maggiore e così via fino ad arrivare all’ordinario militare, che è generale di corpo d’armata. Con stipendio in proporzione.
Attualmente sono in servizio 184 cappellani militari per una spesa annua di circa 10 milioni di euro (fonte: Adista, n. 57), ai quali bisogna aggiungere le pensioni. Che non sono proprio robetta, considerando che quella del massimo grado, l’ordinario militare/generale di corpo d’armata, è di circa 4 mila euro al mese (percepita, ad esempio, dall’attuale presidente della Cei Angelo Bagnasco, ordinario militare dal 2003 al 2006).
Qualcuno forse si scandalizzerà per l’accostamento tra armi e principi cristiani, ma a torto. Nonostante i ripetuti appelli alla pace – quando conviene – provenienti da Oltretevere, la posizione ufficiale della Chiesa non lascia adito a dubbi: «L’uso della forza militare è moralmente giustificato dalla presenza contemporanea delle seguenti condizioni: certezza di un durevole e grave danno subito; inefficacia di ogni alternativa pacifica; fondate possibilità di successo; assenza di mali peggiori, considerata l’odierna potenza dei mezzi di distruzione» (Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica, 2005).
Il punto non è comunque di ordine morale almeno per chi, come noi, è fuori dalla Chiesa e dalla sua dottrina, bensì di natura molto più prosaica: lo Stato italiano paga, e per di più due volte, il “servizio” di assistenza religiosa per i militari (cattolici, ça va sans dire). Ossia, messa, sacramenti, preghiere. Ma la stessa cosa vale nelle carceri e negli ospedali, dove mantiene (sempre con doppio stipendio) analoghi cappellani. L’indifendibile privilegio, però, non pesa solo a chi fa della separazione tra Stato e Chiesa, e quindi dell’abbattimento dei finanziamenti pubblici alla religione, un principio ineludibile della Repubblica italiana, bensì anche a varie comunità cattoliche come Pax Christi, Cipax e Comunità di base San Paolo, che denunciano da tempo, inascoltate, l’offesa alla laicità dello Stato (vedi appello: No al Concordato, no ai cappellani militari). Ma forse per loro la prima offesa dovrebbe essere alla fede che professano, della quale questi mercimoni sviliscono la (spirituale?) natura.
Se in tempi di crisi come questo sono rimbalzati a più riprese sulle pagine di alcuni giornali i privilegi economici di cui gode ancora la Chiesa cattolica in Italia (vedi otto per mille ed esenzione Ici per gli immobili ecclesiastici ad uso commerciale), delle ancor più ingiustificate spese “accessorie”, quali quelle per l’insegnamento della religione nelle scuole o per gli stipendi dei cappellani militari, non si parla mai abbastanza. Anzi, non si parla affatto. E probabilmente è fiato sprecato anche verso questo governo “tecnico” che, guarda caso, vuole risanare i conti attingendo dalle tasche dei suoi cittadini più deboli (pensioni, articolo 18) prima di colpire l’evasione fiscale e i privilegi, piaghe sociali che ci costano centinaia di miliardi di euro ogni anno.
Cecilia Maria Calamani (da Cronache Laiche)
(LucidaMente, anno VII, n. 75, marzo 2012)
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