Ipotesi sulle origini del disinteresse che ha sommerso la vita pubblica, la partecipazione e le passioni civili
In un pranzo con amici o parenti, qualche buon bicchiere di vino e fiumi di chiacchiere sul niente sono puntualmente interrotti da un argomento. Quello che, se non si bada bene a sorvolare, scatena infuocate discussioni e accese diatribe: la politica. Si comincia con una lamentela sul lavoro, sulla coda al comune, sull’aumento dei prezzi ai caselli autostradali. Si finisce, nel migliore dei casi, con un sempreverde “tanto sono tutti uguali”, che incontra l’approvazione collettiva.
A stupire sono la superficialità e la disaffezione con cui viene affrontato un dibattito di questo genere. Alla domanda su chi si sia votato, qualcuno risponde che non si dice, come fosse il peso, o l’età di una signora. In effetti, si potrebbe obiettare che una parentesi di convivialità e relax non è il contesto adatto per disquisire su temi tanto complicati. La verità è che sempre più spesso (non solo a pranzi e cene) ci si interrompe prima che il confronto diventi litigio. Coltivare interesse per ciò che accade nel nostro paese è ormai un’azione appartenente alla sfera privata, al proprio giudizio personale. Tanti, per non avvertire quel misto di impotenza e rabbia dovuto alla sfiducia nelle istituzioni, abbandonano direttamente la nave. Occhio non vede, cuore non duole è un meccanismo molto spesso utilizzato per le notizie che riguardano la corruzione della classe dirigente o, in modo ancor più lampante, per le guerre. Tanto non possiamo farci nulla, disinteressiamoci.
Il termine da cui proviene la parola polìtica risale all’antica Grecia: politikḗ. Con esso si indicava tutto ciò che attiene alla pólis, alla città-stato, all’amministrazione della vita pubblica. Risulta dunque ancor più surreale che il dibattito sull’arte di governare sia in via d’estinzione, essendo fondante nella sua definizione la collettività. Oggi parlare di politica è equiparato al fare politica: mansione di pochi eletti, relegata al limite agli intellettualoidi di qualche salotto televisivo.
Per comprendere quanto la questione fosse più sentita in passato, non è necessario tornare molto indietro: si pensi al violento impatto che a partire dal 1992 ebbero le inchieste Mani pulite sull’opinione pubblica. Impazzarono fiaccolate, cortei e manifestazioni di solidarietà al pool che svolgeva le indagini (Mani pulite 25 anni dopo: i volti, i fatti, i numeri, RaiNews). Oggi, invece, non ci scandalizza più di niente. Se una volta fervevano ideali e progetti, adesso si scontrano laziali e romanisti. Langue l’impegno sociale e civile, così come la percezione dei propri doveri in quanto cittadini. E la diretta conseguenza di una situazione simile non poteva che essere il crescente astensionismo registratosi nelle ultime tornate elettorali. A quelle siciliane del 2017 non ha votato più della metà degli aventi diritto (Elezioni regionali Sicilia, maggioranza non vota, alle urne solo 46,76%, Ansa).
I motivi di questo boicottaggio di massa sono molteplici. Innanzitutto, in questa fase storica la politica è vista come una struttura malata, corrotta, incapace di fornire le risposte che la popolazione cerca. Inutile, se non addirittura dannosa per il cittadino. Un fattore più generico è l’individualismo galoppante che ha permeato la società odierna: il mutualismo è stato sostituito dall’egoismo e si è molto più spinti alla competizione (sul lavoro, nella smania di possesso dei beni…) e al prevalere sull’altro. Questa logica difficilmente si accorda con la vocazione alla solidarietà e al sentirsi parte di una comunità. Infine, ci si sente lontani dalle istituzioni: mancano punti di riferimento a livello territoriale, luoghi dove riunirsi per discutere, obiettivi in cui identificarsi, che siano presenti anche dopo la tornata elettorale.
“Partecipazione” è la parola chiave da cui ripartire. Ossia riaffermare l’ormai defunta concezione che il comportamento del singolo conta, nel bene e nel male. Istituire laboratori di idee per trovare soluzioni ai problemi di tutti i giorni (si veda, ad esempio: Roma, i volontari di “Tappami” in azione: “Ecco come si riparano le buche”, Tgcom24). Mobilitarsi, invece di aspettare che sia qualcun altro a farlo per noi. Educare i giovani all’importanza del bene comune, della coesione e dell’aiuto reciproco. Solo creando una politica fatta di azioni, non necessariamente etichettabili sotto il segno di un partito, ma semplicemente finalizzate al costruire qualcosa, si potrà ripristinare quell’argomento che non divide, maunisce.
Alessia Ruggieri
(LucidaMente, anno XIII, n. 149, maggio 2018)
Le immagini: Manifestazione popolare di protesta contro le oligarchie; Il lancio delle monetine a Bettino Craxi fuori dall’hotel Raphaël a Roma, 30 aprile 1993 (licensed under the Creative CommonsAttribution-Share Alike 3.0 Unported license); La polizia respinge i manifestanti.
Gentile Sig.ra Ruggieri,
ho letto con interesse il Suo articolo che meriterebbe una riflessione più lunga e approfondita. Mi voglia dunque scusare se pecco di superficialità e approssimazione.
Anch’io ho avuto modo di notare quanto Lei osserva. Per la segretezza del voto, mi domando se non stia subentrando un certo timore ad esporsi in tempi così precari e violenti. Evitare di impelagarsi in discussioni politiche: purtroppo lo stile – che viene dai politici stessi – è diventato quello dell’aggressione verbale, non è più quello del contraddittorio animato ma civile. Infine, vorrei osservare che molti si esternano su FB e simili, magari solo “postando” sentenze di fonte dubbia o ergendosi a tribuni della plebe con toni raccapriccianti. Il confronto politico avviene spesso lì, e spesso a insulti, a distanza fisica, naturalmente. La politica fatta di azioni: Lei ha perfettamente ragione, e l’azione può consistere anche in piccoli gesti della quotidianità. Grazie per il Suo articolo, MV
Gentile signora Versari,
sono io a ringraziarLa per il Suo commento. Essendo quello trattato un tema molto complesso, composto da diversi elementi, è per me un piacere ricevere spunti di riflessione e nuovi aspetti da analizzare come quelli da Lei proposti. Effettivamente il periodo non è dei più floridi per instaurare un dialogo pacifico e costruttivo: i verbi che ho sentito di più ultimamente sono “rottamare”, “abbandonare”, “superare”. Anch’io, poi, trovo preoccupante il potere persuasivo delle bufale su Facebook. Si è persa la buona abitudine di controllare le fonti, la mia ipotesi è che probabilmente la notizia che va a confermare i propri pensieri e sospetti è “presa per buona” senza troppo riflettere sulla sua veridicità. Cordiali saluti, AR