Ne “La recherche du temps perdu”, il grande autore francese si discosta da soluzioni metafisiche concernenti la questione della caducità umana e crea una poetica della memoria ad uso della ragione
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Forse la testimonianza diretta più attendibile dell’ateismo di Marcel Proust (Parigi, 1871-1922) è quella del musicista, suo amante per breve tempo e suo amico per sempre, Reynaldo Hahn (Caracas, 1874 – Parigi, 1947, venezuelano naturalizzato francese). La riferisce Hahn stesso, descrivendo Proust dopo aver assistito agli inutili sforzi dello scrittore per farsi pubblicare qualcosa sul Mercure de France. Ma, certo, la laicità del pensiero di uno dei maggiori letterati universali di sempre è lampante nelle sue opere, e in particolare nella monumentale À la recherche du temps perdu (Alla ricerca del tempo perduto, sette volumi per oltre tremila pagine, l’ultimo postumo).
Nella Recherche Proust si discosta da visioni metafisiche e affronta con lucidità, coraggio e sensibilità il fluire del tempo e la sparizione delle cose che in esso avvengono, come normalmente e purtroppo si pensa. Ma con lui non abbiamo una sparizione negativa né una rassegnazione al “peggio” perché di fatto il “peggio” non avviene se la memoria riesce a ricordare e se il sentimento riesce a posarsi su di essa, aiutata dalla intelligenza a farsene una ragione. La ragione di Proust non è affatto secondaria, non porta a una constatazione ineluttabile della caducità umana, e dunque del valore zero di ogni cosa, ma è una convinzione nella preziosità di ogni attimo, trasformato, dalla passione dello scrittore, in segno indelebile nella realtà presente e in quella a venire. Se consideriamo la storia dell’umanità, ci accorgeremo che Proust ha ragione. Se consideriamo la storia del singolo uomo, ha ragione, si fa per dire, la Chiesa con le sue promesse di salvazione a patto di “mettere la coda fra le gambe”.
Il distacco dalla tutela trascendentale è netto nel pensiero proustiano. Ed è un distacco logico, secondo i suoi principi, peraltro facilmente condivisibili. La tutela trascendentale, la guida della Chiesa, contempla la consolazione individualistica: si finirà in un’armonia misteriosa, senza volontà, così come senza volontà si è vissuta l’intera vita terrestre. Il primo Medioevo, ad esempio, vive solo una vita celeste perché non ha contezza delle proprie capacità speculative qui sulla terra. Proust vive in un mondo completamente diverso, un mondo nel quale è possibile apprezzare l’opera degli uomini (anche se non proprio con accordo esemplare) molto più che dell’uomo singolo. La differenza, comprensibilmente, è enorme.
Il grande intellettuale francese sostiene i principi scaturiti dalle lezioni illuministiche e da quelle romantiche: egli vive in pieno decadentismo (cioè vive la presunta fine delle speranze romantiche) senza essere un decadente autentico. È vero, la Recherche (opera tanto più meravigliosa quanto più la si legge) tratta di nostalgie e malinconie, ma non c’è una svenevolezza, non vi esiste “romanticume”. La ragione e il sentimento vanno più che mai a braccetto in questo meraviglioso scritto, ricreando situazioni più vive di quelle che probabilmente furono effettivamente vissute. Siamo di fronte a un poema dell’umanità, forse tuttora il maggiore della nostra storia culturale. Storia borghese? Ma Proust era un dandy, mai si sarebbe abbassato a intessere trame e a descrivere personaggi degni della mentalità borghese “Bidermeier” (le belle cose di pessimo gusto così ben descritte dal nostro Guido Gozzano). Ricco, indipendente, egli appartiene a una borghesia alta, da rentier: da lassù può respirare aria aristocratica, coltivare preziosismi mentali ed espressivi. Può dare sfogo alla sua personalità, facendosi beffe di qualsivoglia richiamo all’ordine. La religione istituzionalizzata era per lui un centro di potere assurdo, basato sul beghinaggio.
La figura divina viene sminuita, ai suoi occhi dalla religione istituzionalizzata, dalla Chiesa: insomma. Proust non pensa a dio, non lo concepisce, certo frenato dal dio ecclesiastico. Per quanto possa essere indipendente, lo scrittore francese continua a far parte di una comunità condizionata psicologicamente dal vecchio regime religioso, contro cui c’era sostanzialmente una debole reazione. L’Illuminismo era lontano rispetto al Romanticismo dalle molte vite, fra cui quella mistica, rispolverata per contrastare il positivismo della rivoluzione industriale. È comprensibile che verso la religione Proust abbia un atteggiamento pubblico prudente, perché è prudente anche con se stesso. Il coraggio di parlare contro la credulità dimostra di possederlo, ma è come una forzatura di cui farebbe volentieri a meno, cercando di dimenticare l’intero problema totemico. Per questo, egli non approfondisce la questione spirituale e non arriva a un dio proprio. D’altra parte, l’impegno umanistico de la Recherche lo prende a tal punto da impedirgli ogni distrazione. Sa, sente, di aver centrato il problema dell’uomo moderno.
Proust dà dignità al sentire umano e intorno a questo sentire fa ruotare ragione, sentimento, fantasia, con pari valore. È la complessità-uomo a emergere e a valorizzarsi attraverso il presentarsi appassionato della personalità umana. La letteratura mai aveva tanto amato la figura dell’uomo, mai l’aveva resa tanto importante, mai tanto solenne, pur evitando la solennità e anzi rendendo la cosa naturale, vibrante ma lieve, quasi sottotraccia: una normalità vera, insomma. È tutto il mondo interiore, quello dell’animo (non dell’anima) a ispirare l’estro proustiano e a guidarlo verso descrizioni acute, senza sussiego, di vicende umane, concepite come eccezione determinante in un mondo cupo e silenzioso, sicuramente votato a ogni nullificazione.
Il silenzio di una scomparsa è costantemente rotto da quei sospiri che si sono manifestati e che comunque rimangono, da quelle affermazioni e da quelle promesse pur accennate, però assolutamente incisive e dunque sempre presenti. Dove vanno a finire? Vanno a finire nel patrimonio della conoscenza umana, vanno a irrobustire la speranza di un’esistenza migliore. L’umanità è una catena robusta che non deve essere mai spezzata, pena la frustrazione, l’inganno, la fantasia malata, la sottomissione a un idolo, la perdita della ragione: cose che in Chiesa, ma non per colpa della Chiesa stessa, quanto per colpa di coloro che la esaltano sopra tutto, per pigrizia mentale e per timori ancestrali che si pretende di risolvere deresponsabilizzandosi, avvengono abitualmente. Proust la sua responsabilità di vivere e di essere se la prende, eccome!, trovando il modo di tesaurizzarla e di donare il tesoro a tutti (se lo vogliono).
L’immagine: ritratto di Reynaldo Hahn (1907, di Lucie Lambert), una copertina della Recherche e la tomba di Proust (uploaded from http://flickr.com/photo/73293249@N00/400308314).
Giuditta Piazza – dall’archivio di NonCredo. La cultura della ragione, «volume bimestrale di cultura laica»
(LM MAGAZINE n. 27, 18 novembre 2013, supplemento a LucidaMente, anno VIII, n. 95, novembre 2013)
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