L’ironia di Renzi e la mancata indignazione da parte degli italiani: una mancanza di rispetto che colpisce, fomentando i luoghi comuni contro la categoria degli insegnanti. Ovvero, chi, sottopagato, svolge un mestiere fondamentale
I politici non sono nuovi a “sparate” che fanno presa tra le penne dei giornalisti e sui nervi degli italiani. Uomo di slogan (il “decreto salva Italia”, la “buona scuola” e i famigerati “mille giorni” rimbombano continuamente nell’assordante inattività di un governo “impantanato”), Matteo Renzi, il “nuovo”, continua a promettere riciclando vecchi escamotages: egli parla per luoghi comuni, crea neologismi e utilizza un’ironia tra l’altro nemmeno originale.
Etichettare la precarietà che colpisce chi lavora nella scuola, istituzione in sofferenza da anni, sminuendola in “supplentite”, come se fosse un’infezione intestinale (e qui, di fronte ai nostri politici, altro che “supplentite”…), deve avere richiesto certamente tempo. L’uomo di retorica si è lanciato nella sua scelta lessicale e, una volta affinato il piano comunicativo, lo ha regalato ai cronisti, adempiendo al compito di nutrire l’apparenza. Preparato, ironico e sicuro di sé, Renzi si è presentato pronto a combattere un fenomeno che non aveva bisogno di un’ulteriore collocazione linguistica e che di per sé la dice lunga sulla sofferenza del corpo docente italiano. Ma ciò che fa riflettere non è come si comporta il premier. È soprattutto il silenzio di un popolo che non si ribella più, che anzi incassa le provocazioni, forse sorride, di sicuro perdona un prendere tempo travestito da slogan salvifici ogni volta diversi.
Commentare o sminuire il lavoro altrui, qualunque esso sia, è uno sport che molti praticano volentieri, forse perché andare a correre è fondamentalmente più faticoso. Colpire gli insegnanti, poi, è tra le discipline più gettonate. Anziché restare uniti contro una classe politica che si fa beffe del proprio Paese, gli italiani si punzecchiano a vicenda, alimentando “guerre” tra dipendenti pubblici e privati, tra chi fa un’ora in più e chi una in meno. Gli insegnanti lavorano poco, gli insegnanti hanno tre mesi di ferie, gli insegnanti stanno a scuola solo mezza giornata e così via. Nulla di più falso e, in aggiunta, banalità simili vilipendono chi conosce l’impegno dell’educazione, a tutti i livelli.
Chiunque abbia il buon senso di non giudicare approssimativamente una professione rifiuta i più scontati luoghi comuni. Ma ecco che un uomo, il premier, che dovrebbe rappresentare la maggior parte degli elettori, si inventa a caso una parola che alimenta il dibattito/polemica su una categoria sottopagata, immersa nelle complesse realtà di ragazzi e genitori. Un’ulteriore difficoltà è la famiglia, sempre più assente nell’impartire la prima, vera educazione ai bambini e spesso pronta a vedere nel docente un nemico che prende di mira gli alunni nove mesi all’anno. Il mestiere dell’insegnante prosegue al di fuori dell’aula ed è improntato più di altri alla responsabilità, alla continuità, alla formazione e alla sensibilità verso personalità e questioni individuali differenti. Problemi scolastici, ma anche sociali e umani, sono compresi in una tanto delicata professione. Le supplenze sono sinonimo di interruzione e saltuarietà, sia nella didattica sia come punti di riferimento per gli alunni, ma rappresentano il “ciclo vitale” di questo settore. Per chi sale in cattedra la “gavetta” è fondamentale per farsi le ossa sul campo e serve più di lauree, master e abilitazioni che stremano psicologicamente e non contribuiscono certo a selezionare i migliori insegnanti di domani (vedi Antonella Colella, Renzi annuncia “la Buona Scuola”… ma chi sono i cattivi?).
Gli ultimi dati Ocse, pubblicati nel rapporto Uno sguardo sull’istruzione 2014, parlano di una diminuzione del 2%, rispetto al 2008, degli stipendi dei docenti italiani, già tra i più bassi d’Europa. Essi denunciano, inoltre, una riduzione del numero dei professori (1 ogni 12 alunni), causata dai tagli alla spesa pubblica e dal relativo blocco del turnover (nel 2012 il 62% dei nostri docenti aveva più di 50 anni, la più alta percentuale anagrafica rispetto ai 34 Paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo). Dal report, infine, risulta che solo in Italia si registra una sensibile diminuzione degli investimenti pubblici per la scuola: tra il 2000 e il 2011, a fronte di uno standard Ocse del +38%, abbiamo il triste primato del -3% e un -4% dal 1995 al 2011, risultante dalla media tra un +8% dal 1995 al 2008 e un -12% dal 2008 al 2011.
La scelta lessicale di Renzi trova ragione nella retorica. Ma estirpare il male della “supplentite” non sublima né risolve alcunché, anzi fa ghignare sulla categoria. È poi discutibile nutrire l’illusione che, nel giro di un paio di anni, sistemando in ruolo un numero esorbitante di precari statali (cifra che cresce esponenzialmente: nel giro di quattro settimane si è passati da 100.000 a 148.000), si possa migliorare l’economia di un Paese che arranca, producendo sempre meno, con una disoccupazione ormai fuori controllo. Gli ultimi dati Istat rilevano, infatti, l’infelice primato dell’Italia nell’eurozona con più di tre milioni di cittadini senza lavoro, il 12,6% del totale (dato che non comprende precari e cassintegrati). Ma lui può dire tutto. Questo, del ruolo di presidente del Consiglio, lo ha imparato bene.
Le immagini: il premier Matteo Renzi e generiche immagini di aule scolastiche.
Maria Daniela Zavaroni
(LucidaMente, anno IX, n. 106, ottobre 2014)