Amir ha poco più di vent’anni e arriva dal Congo dove frequentava l’università. Ha dovuto lasciare il suo paese d’origine, costretto non dalla miseria, ma dal fatto che la propria vita era in pericolo a causa delle persecuzioni politiche. Stava preparando una tesi sulle compagnie petrolifere e si impegnava, forse troppo secondo le autorità, nell’attività politica studentesca. Malik, anche lui giovanissimo, ha lasciato il Camerun in cui era ricercato: posti di blocco della polizia ovunque e in breve si è ritrovato senza possibilità di movimento. È riuscito a fuggire solo grazie ad un amico d’infanzia che faceva il militare all’aeroporto e che l’ha lasciato passare indenne al controllo.
Ovviamente Amir e Malik sono nomi di fantasia, un po’ per proteggere loro e un po’ perché, in fondo, qui hanno trovato un nuovo modo di vivere.
Il Progetto Sprar Dal 2003 il Servizio immigrati di Bologna aderisce al bando nazionale del Ministero dell’Interno per richiedere il contributo del Fondo nazionale per le politiche ed i servizi dell’asilo, rinnovando così annualmente la propria partecipazione al Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), progetti gestiti dagli enti locali con finanziamenti statali. Inizialmente il progetto era approvato per l’ospitalità di trentacinque richiedenti asilo, per il biennio 2009-2010 i posti disponibili sono quaranta.
%09Il programma prevede l’immediata accoglienza in strutture predisposte per un limite temporale di sei mesi, rinnovabile fino ad un massimo di dodici mesi complessivi. Le regole di condotta previste dal progetto sono molto severe… E’ Sanja che ce ne parla, nata a Sarajevo, da tanti anni in Italia, una delle operatrici decane dello sportello Sprar: “Vogliamo evitare che i ragazzi pensino di stare in un dormitorio in cui si esce e si entra a piacimento e in cui i doveri sono labili. Il regolamento è chiaro e inderogabile: per esempio non si fuma, non si beve e gli impegni che si prendono vanno rispettati, pena l’espulsione dal progetto e dall’assistenza del Comune”. Come è accaduto, ad esempio, ad una famiglia kosovara: marito e moglie, non essendosi impegnati a rispettare i limiti temporali, al termine della prima scadenza sono stati esclusi dal sistema di protezione. Così facendo i loro tre figli non hanno più potuto frequentare la scuola.
%09Lo Sprar prevede anche un vero e proprio cammino di integrazione sul territorio e nel mercato del lavoro, come sottolinea ancora Sanja: “Ogni persona che accogliamo ha una storia unica, infatti per ognuna individuiamo un percorso personalizzato. Per esempio gli cerchiamo la medesima occupazione che svolgeva nel suo paese, oppure, se non ha potuto studiare, lo iscriviamo a scuola”. Questo accade anche per cercare di rendere meno dura la nuova situazione da rifugiati politici, in quanto per molti di loro è una condizione difficile da accettare: “L’immigrato che arriva in Italia – puntualizza Sanja – è pronto a qualsiasi cosa, tanto pensa che peggio di così non possa andare. Il rifugiato, invece, è spesso istruito e benestante e qui entra subito in una condizione di disagiato che lo traumatizza. Questo nuovo status e il viaggio durissimo intrapreso fanno spesso cadere i ragazzi in depressione e ne rendono necessario il ricovero al Centro di salute mentale”. Come Karim, lo chiameremo così, che è arrivato dall’Afghanistan nascosto sotto un camion, senza che l’autista sapesse nulla. Se avesse perso le forze e si fosse lasciato andare sarebbe stato fatto a pezzi dai veicoli in corsa sull’autostrada.
E chissà a quanti dei suoi amici ha visto fare questa fine.
Il Centro di accoglienza “San Donato”
In via Quarto di Sopra, dal 2002, nell’ambito dello Sprar, funziona il Centro di accoglienza “San Donato”. Gli ospiti della struttura arrivano dall’Asia e dall’Africa: Ghana, Eritrea, Somalia, Iran, Armenia, Afghanistan. Sono in gran parte maschi e tutti giovani, infatti l’età media è inferiore ai trent’anni. Arrivano non solo da paesi in cui imperversano guerre civili ma anche da nazioni in cui il regime è diventato sempre più repressivo. Spesso scappano in cerca di libertà. E proprio l’impossibilità di essere se stesso che ha spinto un giovane camerunense, che chiameremo Talib, a fuggire dalla propria patria: è gay e per questo non accettato e perseguitato nel proprio Paese.
Il viaggio da intraprendere è lungo, spesso passano mesi e mesi prima di arrivare alla meta, come ci conferma Raimonda, un’operatrice del Centro: “Gli afghani, per esempio, giungono fin dove possono con i soldi che hanno. A volte sono costretti a fermarsi in Iran per pagare i trafficanti che li portano in Italia. Spesso sono trattati da schiavi, dormendo perfino sul posto di lavoro”. Poi arrivano nel Belpaese e se prima, nella loro nazione, venivano chiamati Doctor perché erano ingegneri, qui non sono più nessuno: “Lo scarto tra le loro aspettative e la realtà nuda e cruda – fa notare Saverio Gubellini, il coordinatore della struttura – è profondo e difficile da capire. Questo, per loro, è un periodo di attesa, una specie di limbo in cui in cui ridefinire i propri vissuti anche in relazione alle leggi e ordinamenti della nostra società”. Proprio per tale motivo il Centro si impegna ad organizzare occasioni di socializzazione, come uscite a teatro, al cinema, gite fuori porta, corsi di informatica e di italiano.
Fondamentale è anche responsabilizzare gli ospiti: “Molti altri centri – ci tiene a sottolineare Raimonda – si avvalgono di imprese di pulizia, qui no. Abbiamo un calendario in cui a turno i ragazzi puliscono e ognuno di loro compra i detersivi che utilizza. Tutto ciò aumenta la collaborazione fra loro, oltre ad essere anche “terapeutico”: tenere in ordine lo spazio in cui si vive serve a tenere in ordine anche se stessi”.
L’assunzione presso le aziende
Saverio e Raimonda ci fanno visitare un appartamento in cui vivono quattro giovani: appena entrati è impossibile non sentire il profumo di spezie e di esotico che proviene dalla cucina, in cui un ragazzo di colore prepara il pranzo, che si espande anche nella sala comune. Le due ali opposte della casa hanno rispettivamente un bagno e una camera con due posti letto. Raimonda ci spiega che il Centro è autogestito ma che gli operatori sono sempre disponibili e cercano di risolvere qualsiasi problema. Come quello di un ragazzo, che, per non dover aspettare troppo tempo davanti al posto di lavoro ancora chiuso, prendeva l’autobus della corsa successiva arrivando con quindici minuti in ritardo. Tanto – decideva da solo – quel quarto d’ora lo avrebbe comunque recuperato.
%09Il fine ultimo del progetto è quello fornire a questi giovani gli strumenti necessari per renderli autonomi, anche attraverso il lavoro. I tirocini formativi sono i più efficaci perché rilasciano un certificato. Molti ragazzi vengono assunti e per molti di loro arrivano al Centro lettere di complimenti: “Questo per noi – dice Raimonda – è una grande soddisfazione perché ci dimostra l’efficacia del percorso che stiamo intraprendendo. Certo, noi fungiamo da mediatori tra l’azienda e i ragazzi perché a volte occorre spiegare loro che esistono delle regole. Ma molto spesso sono le aziende stesse che ci chiamano per chiedere di loro, in base ad esperienze positive che hanno già avuto”. Così, ogni tanto, c’è qualche azienda che chiama un’operatrice della struttura e dice: “Salve! Senta, le cedo trecento italiani per il lavoratore che mi ha mandato!”.
E, al termine della scadenza si sono creati legami, che gli stessi ex ospiti tengono a non lasciar cadere e che li inducono a tornare al Centro in occasione, per esempio, dell’annuale festa di Natale.
L’immagine: il Centro di accoglienza San Donato.
Jessica Ingrami
(LM BO n. 1, 16 marzo 2009, supplemento a LucidaMente, anno IV, n. 39, marzo 2009)