Un separé a forma di grattugia, un musallah con bussola incorporata, uno zerbino di chiodi, saponi di spille che sfregiano il viso, cucine elettrificate, culle di lame e vetro, letti come ragnatele metalliche. Volti, valige, dizionari, scarpe e ceste ricoperte di cerotti, chiodi, filo spinato. Corpi di plastica e sangue usciti da un’allucinante stanza della tortura. Rubinetti da cui non esce acqua, pane arabo ripieno d’ovatta e ricucito come una ferita suturata. Opere inquietanti che utilizzano elementi naturali ma soprattutto i prodotti della cultura.
Materiali medici, da ferramenta, militari, per sviscerare il complicato rapporto con la politica, la religione, l’individualità, l’esistenza nei propri spazi e l’identità del popolo palestinese a fianco a quello israeliano. Arte con un preciso obiettivo: riprodurre la frantumazione d’una terra e un’insofferente mappa della coesistenza.
Davanti agli oggetti comuni di Mona Hatoum ci si sente smarriti. Dimensioni fuori misura e differenti funzionalità amalgamate generano ambiguità spaziale e una percezione di perdita del soggetto. Come ne La grande broyeuse, un macinino ingigantito al punto da farci sentire vulnerabili perché capace di triturarci, la Hatoum unisce familiare e perturbante. Greater divide, un paravento, funziona sia da riparo discreto sia da grattugia. Un gioco tra spazi opposti, fuori e dentro, uno intimo, personale, e uno esterno, organizzato dall’altro, che tagliuzza l’identità culturale. La variazione sugli oggetti d’uso include un tavolo da cucina pieno d’utensili, circondato da filo elettrico come fossimo a un checkpoint. Se toccato, simula una scarica, è l’ansia.
Culle costruite con rasoi, tubi di vetro, come per Incommunicado o Silence. Fanno male, parlano di una infanzia incapace d’esprimere la paura. Evocano isolamento, solitudine, fragilità. Al di là dell’opprimente vissuto domestico la Hatoum affronta tematiche religiose, politiche. Prayer mat è un tappetino da preghiera fatto di chiodi. Incorpora una bussola, rinvio a una religiosità confusa e sofferta. Door mat smaschera la falsa promessa del ritorno a casa dei rifugiati ibridando un letto da fachiro e uno stoino con sopra scritto Welcome. In una performance del 1983, The negotiating table, l’artista, sdraiata su un tavolo in legno, è avvolta in un sacco per cadaveri con dentro bende, sangue, interiora. Attorno sedie vuote che proferiscono i discorsi di pace di leader occidentali. È la giustapposizione di due elementi per esprimere la situazione politica internazionale rispetto al conflitto israelo-palestinese. La realtà fisica, la brutalità della situazione, e la distanza dalla quotidianità, la superficialità occidentale al conflitto.
Nei lavori di Khalil Rabah volti e oggetti sono coperti di materiali che narrano la sofferenza esistenziale e culturale. Dictionary work, un dizionario tascabile coperto di chiodi, lascia libera solo la voce “Palestina”, concepita dagli occidentali e basata su una nozione storica razzista. On what ground è una grande area di terra. Sopra candele sulle quali pone 48 scarpe piene di chiodi, numero che evoca l’anno della nakba. L’opera fonde due segni religiosi che precedono la preghiera. Le candele che accendono i cristiani e le scarpe che tolgono i mussulmani. Ma le scarpe di Rabah sono martellate di chiodi, inservibili, immobilizzate. Mostrano la precarietà e l’inutilità delle religioni nella risoluzione del problema mediorientale. Incubation esplora il rapporto tra sé e gli altri, israeliani e palestinesi. Ceste di filo spinato sono allineate in una stanza. All’apice una scodella di stagno piena d’olio con immerse bobine di filo ricamato con i colori della bandiera palestinese.
La relazione tra occupanti e occupati si struttura in due spazi squilibrati. Quello soffocante e spinoso delle ceste e quello piccolo e fragile delle bobine. Il filo spinato, parte integrante del lessico artistico palestinese così come dell’espressione dei minori, è segno dell’occupazione israeliana, delle recinzioni degli insediamenti e delle basi militari nel West Bank e nella Striscia di Gaza. Un’iconografia rielaborata da Rabah, producendo l’ironico attorcigliamento del filo, che prende la forma delle ceste dove i fellahi (contadini ndr) pongono le olive durante la raccolta. All’artista interessa la differenza tra il frutto della natura e il carattere aggressivo della cultura. Womb, una valigia al cui interno colloca una sedia, è foderata di cerotti. Secondo Gannit Ankori, professore di Storia dell’arte alla Hebrew University di Gerusalemme, l’opera è una metafora della patria come grembo ferito, luogo materno che chiama in causa Mount Carmel is in Us del poeta Mahmoud Darwish. Valigia che ricorre in Untitled di Raeda Saadeh. L’artista si fotografa all’ingresso di casa, con la porta aperta, pronta a partire e la gamba sinistra, dal polpaccio al piede, avvolta in un cubo di cemento bianco. Un’azione bloccata, fermo-immagine tra desiderio d’abbandonare una vita impossibile e il forte radicamento alle origini. In Basket la sua testa è dentro la classica cesta a rete per la spesa. Esprime la privazione di libertà. Per una fotografa avere lo sguardo ingabbiato significa rinunciare all’esistenza.
Spesso l’arte restituisce il contesto storico. Come i vestiti vuoti che si librano al vento, senza i corpi che li indossano, di Raeda Adon. Fantasmi neri sul distrutto villaggio di Lifta, allegoria di quanto rimane di quel bagaglio mnemonico che è stato l’esodo. O le installazioni di Mary Tuma. Home for the disembodied mostra abiti ingigantiti, allungati, un’anamorfosi vestimentaria che li trasforma in scie, tracce d’assenza. L’inquadratura sulla realtà in molti artisti s’allarga al di là d’una mappatura degli spazi interiori ed esteriori. Rana Bishara a Gaza riempie pane arabo d’ovatta suturandolo con filo medico. Ricorda l’embargo e gli effetti delle politiche internazionali su salute pubblica e cibo. Nell’installazione Homage to Childhood parla di sofferenza infantile. Una stanza rettangolare piena di palloncini bianchi (dentro i quali inserisce foto e testi dell’Organizzazione delle nazioni unite) che rappresentano bambini uccisi dall’esercito israeliano.
Sospese al soffitto, una serie d’aureole di filo spinato ricoperte di tessuto bianco. Il pubblico cammina dentro interagendo con uno spazio frammentato per via delle differenti altezze delle aureole. I palloncini bianchi, una cronologia di morte, scoppiano calpestati dagli spettatori, lasciando libere le foto e rompendo la qualità silenziosa dell’opera che evoca lo stato del ricordo. A ogni esplosione il pubblico è parte d’una violenza storica. In Blindfolded History 50 pannelli in vetro sono collocati disordinatamente con sopra foto stampate in cioccolata. Ognuna rappresenta un anno d’occupazione israeliana. Un percorso visivo, dall’esodo fino all’ultima intifada, che immerge in uno spazio-tempo smembrato per ricordare come si vive. Ma anche un viaggio olfattivo. L’odore di cioccolato per far annusare l’infanzia impossibile. Secondo un neologismo dello scrittore palestinese Edward Said, oggi l’arte in Palestina riflette questa tendenza al dis-orientalismo. Uno spazio quotidiano e culturale fatto a pezzi in cui gli artisti uniscono gli effetti collaterali della guerra e il desiderio di pace.
L’immagine: Greater divide di Mona Hatoum.
Andrea Spartaco
(LucidaMente, anno IV, n. 47, novembre 2009)