Le testimonianze parlano di una figura vestita di nero che si presentava di notte davanti al malato per liberarlo dalle sue sofferenze
Non sappiamo se sia esistita, davvero ma è difficile trovare in Sardegna una persona che non conosca o che non abbia mai sentito parlare della figura dell’accabadora. Acabar in spagnolo significa finire, e in sardo sa femmina accabadora è colei che finisce, ovvero colei che mette fine alla vita delle persone.
Si muoveva per le vie del paese in piena notte, vestita rigorosamente di nero, quasi a evocare la morte, e si presentava alla porta della famiglia del moribondo che aveva bisogno del suo aiuto. I parenti dell’ammalato, che invocavano frequentemente loro stessi l’aiuto della donna, avevano l’accortezza di lasciare il portone di casa aperto, pronto ad accogliere la figura vestita di nero. L’accabadora rimaneva dunque da sola nella stanza che ospitava il malato terminale e, dopo aver fatto uscire i familiari e spogliato la camera di tutti gli oggetti sacri, faceva ciò per cui era stata chiamata: far cessare le sofferenze di chi stava male. Gli strumenti da lei utilizzati erano o un semplice cuscino da premere sul viso sino al sopraggiungere della morte, o su mazzolu, ovvero una sorta di martello con cui assestava un colpo mortale, quasi sempre sulla fronte. Una volta compiuta la missione per la quale era stata chiamata, questa sorta di sacerdotessa sarda andava via così come era venuta, accompagnata dall’oscurità della notte.
L’atto compiuto da s’accabadora non era affatto considerato dalla comunità sarda il gesto di un’omicida, bensì un atto pietoso, addirittura amorevole, necessario per accompagnare il malato terminale nel suo viaggio verso l’inevitabile morte. Non solo il compito della donna era considerato un aiuto per mettere fine ai dolori del moribondo, ma era ritenuto necessario alla sopravvivenza della famiglia, per la quale farsi carico della malattia del parente in fin di vita diventava un problema economico e un rischio per la salute.
La trasmissione di questa pratica avveniva soprattutto oralmente, così come le storie intorno a questa figura che si tramandavano di generazione in generazione. Soprattutto per questo motivo rimane ancora oggi un alone di mistero sulla reale esistenza della donna vestita di nero, anche se certi documenti ritrovati nelle diocesi sarde e le testimonianze di alcune persone sembrerebbero non lasciare più dubbi. A supporto di ciò, sono stati documentati gli ultimi due episodi noti di tale prassi che riguardano una morte avvenuta a Orgosolo nel 1952 e a Luras nel 1929. Si dice inoltre che la stessa donna non solo avesse il compito di accompagnare alla morte, ma anche di aiutare a partorire e dunque a dare la vita, atto che compiva non più vestita di nero, ma vestita di rosso. Questa figura, legata indissolubilmente alla vita e alla morte, era considerata naturalmente parte integrante della società sarda, compiendo l’ultimo atto, che oggi equivarrebbe al gesto di staccare la spina al malato. Ma ecco che, irrompendo nella nostra realtà moderna, quest’atto considerato amorevole e pietoso ci pone delle problematiche etiche sul ciclo della vita che a fatica riusciamo ad affrontare.
Irene Sirigu
(LucidaMente, anno XIII, n. 152, agosto 2018)