L’appassionata lirica di Alessandra Gazzi è il titolo della Prefazione del nostro direttore Rino Tripodi a Schegge di emozioni (pp. 108, € 10,00), appunto della poetessa emiliana Alessandra Gazzi, ottava uscita della collana di poesia Le costellazioni sonore delle nostre edizioni. Vediamo come Tripodi analizza l’opera dell’autrice della silloge.
Gli elementi che risaltano subito leggendo la poesia di Alessandra Gazzi sono la sincerità, la schiettezza, la spontaneità. La poetessa esprime quasi senza barriere mentali o filtri formali il proprio mondo: emozioni, piaceri, paure, riflessioni, rabbie, sofferenze, espresse a volte tumultuosamente, altre volte con palpitanti e delicate luminescenze. Si può senz’altro affermare, pertanto, che si tratta di una poesia lirica al massimo livello.
Lirica soprattutto d’amore: un amore avvertito come passione ardente, viscerale (“Mi manchi sulla pelle, / cerco il tuo odore come un cucciolo smarrito”, in Avrai cura di tutto quello che ti ho dato?), che, purtroppo, spesso è problematica, infelice (A te), sulla soglia della conclusione (“Siamo arrivati alle ultime pagine, / non rimane più molto da scrivere, / adesso serve solo il coraggio”, in Quella porta) o proprio finita (Con gli stessi occhi), e tuttavia ancora desiderata come gocce d’acqua sulle labbra riarse di un assetato (vedi anche Amarti): “Darei un soldino per amarti lo stesso, / anche se so che per noi non ci sarà futuro… / ma il mio amore è così grande / che basterebbe lo stesso!” (Darei un soldino).
Ecco, allora, che la tematica del dolore, non solo prodotta dalle delusioni amorose, ma quale condizione esistenziale quasi costante degli umani, si presenta come un’altra tematica della poetessa. Una sofferenza invincibile, che in E stare lì occupa quasi l’intero componimento, il quale diviene una preghiera affinché essa cessi; ma inutilmente, come si vede dalla conclusione impotente: “Com’è intenso il dolore, / non c’è arma che possa combatterlo, / e sto lì, aspettando che passi, / deve passare, deve andare via, / tornare negli angoli più remoti dei miei pensieri, / e stare lì in silenzio, / finché il tempo da solo possa guarire le ferite, / togliere i lividi nell’anima. / Vorrei che non fosse mai successo, / ma i solchi sono sempre più profondi, / non vanno via, non vanno via, / non possono più andare via”.
Il male non appartiene solo alla voce lirica individuale: è anche sofferenza del mondo (Un cieco) e, allargando il discorso a una visione più ampia, è legato all’ingiustizia, alla violenza del potere, alle storture sociali. Da queste considerazioni la genesi di alcune poesie “impegnate” della Gazzi. Su tutte, la lunga “ballata” finale, polemica e urlata, Se Cristo esiste è un detenuto. In alcuni componimenti si giunge al contatto diretto con la cronaca (Heysel) e con le tematiche di scottante attualità, come le stragi del sabato sera collegate all’abuso di droghe (Special k), o la fine dell’impegno civile, causato dalla crisi di valori della nostra società: “Che cosa è rimasto di quegli 8 marzo? / No, non può essere diventato solo l’occasione / per trovarsi in una pizzeria” (8 marzo).
Allorché il pessimismo e le delusioni sembrano avere il sopravvento, l’unica via d’uscita appare l’evasione: “A volte quando guardo il cielo / vorrei essere trasportata via da qualche nuvola / vorrei essere tanto distante dalla terra / così che nessuno possa farmi soffrire” (A volte).
E una forma di evasione è pure rifugiarsi nella nostalgia del passato, interstizio di luminosità ormai lontane, come nella splendida Malinconia: “Nulla sarà mai più come prima, / rincorro i giochi che si facevano nei campi, / quando ancora i fiori profumavano d’innocenza, / quando ancora il sole mi scaldava il cuore. / Dove sono finiti quei sorrisi di fanciulla? / Quand’è che ho perso la mia giovinezza? / Dov’è finito l’odore dei quaderni / appena comperati?”. Si respira, in questo componimento, al contempo, il rimpianto per quanto irrimediabilmente perduto e il piacere di riviverlo nella memoria.
Pur tuttavia, “dopo la pioggia il sereno, / in un attimo il mondo / cambia l’umida veste” (Dopo il dolore la gioia). Le ansie, le sofferenze, le delusioni, i ricordi del passato, sono vinti dal flusso invincibile de La vita che “non sarebbe tornata / per offrirgli un’altra possibilità, / il tempo di vivere è adesso”.
La piena accettazione dell’esistenza passa attraverso gli affetti. Da quelli familiari, come la mamma (Per te, mamma; Una sera di luglio) e il babbo (Padre), a quelli per i bambini Rebecca e Diego (Così piccolo), fino al Ciao, Slobo, all’amico disabile (Amico mio) e alla cagnolina Asia. O anche gli incontri con sconosciuti, dei quali vengono tracciati indimenticabili ritratti (Il vecchio marinaio). Così si arriva alla serenità e a un desiderio che ricorda quello del Faust di Goethe: “Vorrei fermare il tempo, / adesso sarebbe perfetto” (La mia solita panchina).
L’apparente semplicità dell’ordito lirico della Gazzi è arricchito da una serie di immagini sorprendenti, che affascinano il lettore.
Quasi leopardiano è l’incipit di Nel silenzio di una notte qualunque (“C’è nell’aria il sapore di momenti di pace”), che ci avvolge sofficemente coi suoni e col pacato ritmo, mentre quello di Malinconia è caratterizzato da un’icasticità, nell’irrompere dell’interrogazione, che ricorda García Lorca (“Chissà se anche i cani all’imbrunire / soffrono di malinconia?”).
In Manifesti lacerati viene ricreato alla perfezione un piccolo ambiente urbano (“restano solo muri freddi / con manifesti lacerati e un vicolo famigliare”).
La Gazzi è in grado di animare gli oggetti, collegandoli tra loro con una serie di analogie, rifrazioni adamantine del suo mondo lirico: delicate (“in quell’angolo del cuore, / in fondo a sinistra, / ho ripiegato con ordine le parole, / i pensieri, le illusioni, / badando bene che il tempo non le sgualcisca”, da In quell’angolo del cuore), ironiche nell’umanizzazione degli elementi naturali (“L’onda s’infrange rumorosa, / schiaffeggia l’ignaro scoglio vanitoso”, in Scoglio), sentimentali (“aggrapparsi a questo foglio di carta”, E’ solo) o molto forti (“La speranza mi si sgretola in gola / come ferro mangiato dalla ruggine”, in Il Tempo), fino all’arditissima “mi volo dentro” (Tregua), che ungarettianamente, in tre parole, ci fa provare il brivido vertiginoso dell’esaltante movimento infinito dell’esplorazione entro il proprio spirito alla ricerca di sé e delle energie più profonde.
Così, il lettore, tra sincere evocazioni dell’animo e sottili immagini e acrobazie poetiche viene condotto e guidato per mano e passo passo dall’autrice alla fruizione estetica di questa bella silloge.
(Rino Tripodi, L’appassionata lirica di Alessandra Gazzi, Prefazione a Schegge di emozioni di Alessandra Gazzi, inEdition editrice/Collane di LucidaMente)
L’immagine: la copertina della silloge.
Eva Brugnettini
(LucidaMente, anno III, n. 30, giugno 2008)