Partendo da un corso di formazione, per arrivare alla discriminazione del “maschile”… e, soprattutto, al maltrattamento della lingua italiana
Qualche tempo fa abbiamo frequentato, nell’ambito dell’obbligatoria formazione permanente continua per gli iscritti all’Ordine dei giornalisti [vedi Quei maledetti corsi (obbligatori) di aggiornamento], un evento intitolato Informazione e linguaggio di genere. Voi direte: “Te la sei cercata”. E avete ragione. È vero. Volevamo “toccare con mano”. Se non altro, perché siamo autori di una assai recente pubblicazione sul come scrivere, anche in ambito giornalistico (vedi: Manuale pratico di Scrittura? È già Nuovo!).
Pochissimi i presenti. Ma questo non è certo indicativo. Ci sono concerti di musica classica o spettacoli teatrali di grande valore ai quali assistono quattro gatti e porcherie cinematografiche con sale piene. Comunque, l’intento della giornata seminariale era quello di indirizzare/intimare gli operatori dell’informazione, quando fanno riferimento alla sfera femminile o a quella lgbtqi (lesbo, gay, bisex, trans, queer, intersessuale), a usare un ben determinato linguaggio “politicamente corretto”. Decine di slide e decaloghi con “Non si deve usare x… ma va usato y”. Con contenuti certamente diversi, erano simili alle liberticide quanto infauste veline fasciste, staliniste e naziste.
Per chi opera nel giornalismo sociale o “settoriale” dedicato alle tematiche femministe o gay, il tutto potrebbe anche risultare accettabile; ma perché un povero giornalista “generalista” dovrebbe piegarsi a un lessico “di genere” (che brutto termine!)? Se non erriamo, i più grandi giornalisti italiani, quali Enzo Biagi, Indro Montanelli, Sergio Zavoli, erano a suo tempo contrari alle carte deontologiche… cosa avrebbero detto di tale ulteriore bavaglio alla libertà di stampa?
Il linguaggio cambia naturalmente col mutare della società e dei costumi. Nessuno oggi si sognerebbe di usare «fedifraga» o «pederasta». Perché, allora, volere imporre la naturale evoluzione lessicale inventandosi una neolingua e psicoreati di orwelliana memoria? Non si tratta di un’imposizione tutta ideologica, femminista e politically correct, che cozza con il pragmatismo, la laicità e la libertà? Le eventuali ingiustizie e discriminazioni del passato si sanano introducendone di nuove, “compensative”? O, piuttosto, si instaura una discriminazione al contrario, una “discriminazione positiva” verso determinate categorie? Ma tali “generi” sono davvero migliori degli altri? I gay non commettono efferati omicidi come gli eterosessuali? L’acido lanciato da donne come Martina Levato devasta meno di quello gettato in faccia dal fidanzato a Lucia Annibali?
Gli infanticidi commessi dalle donne sono sempre giustificabili con problemi psichici? Nella caserma irakena di Abu Ghraib non c’erano donne che sghignazzavano alle torture inflitte ai prigionieri? Nel mondo islamico le femmine hanno raggiunto la parità con l’uomo sotto un solo aspetto: farsi esplodere come i maschi per provocare orribili stragi. Non c’erano donne tra i carnefici della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto (G8 di Genova, 2001)? Il povero Federico Aldrovandi non fu massacrato anche da una poliziotta? Abbiamo formulato tali domande nel corso dell’evento. Niente da fare. È il solito manicheismo di certa sinistra, che divide il mondo in buoni e cattivi e fa di tutto affinché i primi si scambino il ruolo coi secondi, ovvero che gli oppressi diventino oppressori e viceversa.
Tornando all’ambito strettamente grammaticale, è pur vero che per antica consuetudine espressiva il genere grammaticale maschile prevale sul femminile (ad esempio, «Albert Camus e Marguerite Yourcenar sono significativi scrittori in lingua francese del Novecento»; «La fedeltà, l’amicizia e l’eroismo sono positivi»; «Sfilarono per primi le ginnaste e i calciatori italiani»), il che farebbe pensare a un certo “maschilismo”. Tuttavia, si pensi anche al rovescio della medaglia: «I poliziotti intervennero in modo violento e irregolare»; «I soldati statunitensi si son resi colpevoli del reato di tortura»; «L’uomo è per sua natura aggressivo». Eppure, nei primi due casi protagoniste delle violenze, non da meno dei maschi, sono anche poliziotte e soldatesse, e nell’ultimo per “uomo” si intende tutto il genere umano.
È stato criticato anche l’uso, in presenza di donne, di anteporre l’articolo per esplicitarne il genere (ad esempio, «la Boschi», «la Carfagna», «la Jolie», «la Levi Montalcini», «la Merkel», «la Pellegrini», «la Thurman»). Ultimamente, pertanto, si tende a non usare l’articolo neanche davanti a cognomi di donne. Ma non è una forma di rispetto e di galanteria indicare che quel tale personaggio è “donna”? Se, poi, ci addentriamo nel come scrivere “al femminile” le professioni e le cariche, si finisce in un ginepraio.
Un caos cacofonico e insensato generato anche da una delle leader di questa battaglia contro i mulini a vento, la nostra presidente (o presidentessa) della Camera, Laura Boldrini. Il politically correct impregnato di influenze vetero o neofemministe (vedi Elisabetta Santori, Emancipazione della donna o femminismo cruscante?, in MicroMega, 8 marzo 2015) spinge a volte verso la soluzione di lasciare intatta la parola, ma riadattare l’articolo al femminile: «la parlamentare»; «la preside»; «la presidente», «la vigile». Altre volte verso l’adozione al maschile di una qualifica professionale come conquista sociale («il consigliere comunale Angela Bosio»; «l’ingegnere Barbara De Filippo»; «il ministro Tiziana Sassi»; «il notaio Giulietta Ferraris», «il procuratore Anna Esposito»; «il pubblico ministero Alessandra Severi»).
Più spesso, la scelta prediletta dal fanatismo è quella della massima femminilizzazione delle parole che designano mestieri, professioni o cariche politiche o pubbliche riferite a persone di genere femminile, quindi di inventarsi neologismi, spesso sgradevolissimi («architetta»; «assessora»; «carabiniera»; «chirurga»; «consigliera»; «ingegnera»; «medica»; «ministra»; «notaia»; «prefetta»; «pretrice»; «questrice»; «sindaca»). Come in tutte le imposizioni e le tirannidi, il risultato reale finale mostra la ferocia dell’ideologia di partenza. Generi degeneri…
Per approfondire varie “questioni linguistiche”, si veda: Bottega editoriale-Rino Tripodi, Nuovo Manuale pratico di Scrittura per laureandi, saggisti, giornalisti, diplomandi, partecipanti a concorsi pubblici, redattori (Rubbettino, Soveria Mannelli, 2016, pp. 280, € 15,00).
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno XI, n. 127, luglio 2016)
Carissimo Rino,
grazie per questo bell’articolo interessante ed opportuno. Resto però dell’idea che l’articolo “la” sia da eliminare. Niente “la Boldrini”, così come non si sente il bisogno di dire: l’Alfano o il Berlusconi. Non v’è dubbio che quel “la” è residuale di una realtà sociale che relegava la persona di sesso femminile nell’ambito domestico. Resto poi dell’idea che il plurale maschile che ingloba e oblitera il femminile vada assolutamente superato ed è certo che ciò avverrà lentamente ma inesorabilmente creando un genere neutro. Per ora mi accontento nello scritto di porre un asterisco: molt* erano present*.
Grazie.
Gentilissima Maria Laura, grazie per il tuo intervento.
Tuttavia, io penso che l’articolo “la” davanti a un cognome femminile sia sintomo di rispetto e galanteria.
Per il plurale, si potrebbe decidere di scegliere il genere in base all’ultima parola delle perone elencate. Ad esempio: “Gianni, Roberto e Viviana erano solite andare al cinema insieme”.
Alla prossima.
Gentile Direttore,
In effetti anch’io, le poche volte che mi sono vista citata, e magari col solo cognome, mi sono chiesta se io fossi uomo o donna. Dunque, sono d’accordo con Lei su questo punto. La lingua è poi una convenzione e, personalmente, non mi sento turbata se il plurale, in italiano, è al maschile. Lei dimentica inoltre che esiste pure la “poeta”, poiché si ritiene che il suffisso -essa sia offensivo (ma Lei mi insegna che viene dal latino). Nella saggistica poi – mi riferisco a quella recente tedesca – serve il doppio del tempo per leggere a causa dei pleonasmi del tipo “lettori, lettrici ecc. Detto questo, forse, in molti casi, basterebbe aggiungere la “signora ministro” o il “signor avvocato”. E’ un’usanza forse francese, senz’altro tedesca. Per noi sarebbe una forzatura, ma credo darebbe anche un tocco di cortesia.
P.S. In molte situazioni il problema si risolve con l’aggiunta del prenome.
Gentilissima Margherita, grazie per averci scritto. Preziose le sue annotazioni.
…ma sul termine “cicciottelle azzurre” come la pensano le femministe!?
Gentilissimo bardhi, suppongo che le femministe, interessandosi, come sempre, più al lessico e ai formalismi che alla sostanza, ne siano indignate!