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Scrivere con Garbo

Giuseppe Licandro by Giuseppe Licandro
7 Luglio 2013
in CORSI E CONVEGNI, EVENTI CULTURALI, LIBRI
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Ecco i tre racconti brevi vincitori ex equo del concorso letterario “Asinelli… ma non troppo”, indetto dal Gruppo aNobii raduno Bologna e sponsorizzato da “LucidaMente”

In occasione del Raduno nazionale 2013 di aNobii (il social network, creato nel 2006 a Hong Kong, che si interessa di libri e letture), tenutosi a Bologna dal 31 maggio al 2 giugno scorsi, il Gruppo aNobii raduno Bologna (Garbo) ha indetto il concorso letterario Asinelli… ma non troppo, riservato ad autori di racconti brevi inediti di vario genere (noir, thriller, giallo, rosa, umoristico, fantasy), iscritti ad aNobii. LucidaMente ha sponsorizzato l’iniziativa, offrendo in premio ai vincitori del concorso un buono acquisto di libri di € 40,00 e la pubblicazione on line dei loro testi. Ed eccoli, i tre racconti (in rigoroso ordine alfabetico per titolo), premiati ex equo: Anni e anni e anni di Rodolfo Cardarelli (Roma), una sofferta storia d’amore, giunta ormai al capolinea della vita; Il luogo amico di Stefano Machera (Roma), ambientato in un affascinante quartiere romano, dalle intriganti cadenze liberty; L’ondata di Isabella Franchini (Bologna), tragicomico resoconto di un disastro ambientale “annunciato”.

34-Mirabilandia Anni e anni e anni
«Ho paura, Anna, tanta paura».
Anna gli prese la mano.
Sembrava non sentirlo: gli teneva la mano e si frugava in tasca, cercava una caramella, le chiavi di casa, aveva bisogno di fare qualcosa.
Infine si riavviò i capelli candidi, con qualche rada striatura di grigio, ricordo del passato.
Il vento, nonostante la primavera ormai alle porte, la indusse a stringersi al collo la giacca leggera che indossava.
Quando il tempo lo permetteva, metteva sempre quella, sempre la stessa. A lui piaceva, lo tranquillizzava.
Gliel’aveva comprata, molti anni prima, durante un viaggio di lavoro a Parigi.
Gliel’aveva data, con cento rose rosse, appena tornato a casa.
Lei aveva già fatto le valigie, aspettava solo di vederlo per dirgli addio. Era stata troppo male, e non erano bastate le urla, le lacrime, i figli, per tenere tutto insieme.
Ma quest’uomo dai capelli sottili, dagli occhi chiari, con in mano un pacco e un mazzo di rose, l’aveva commossa.
Lo aveva guardato a lungo, in silenzio, rigirando nervosamente la fede che avrebbe voluto riporre – per sempre – nella sua custodia.
Lui aspettava trattenendo il fiato, niente c’era da dire, si erano già detti tutto, c’era solo da aspettare e vedere, se c’era rimasto qualcosa.
Alla fine aveva detto solo: «Vai a farti una doccia, sarai stanco».
Non se n’era più andata, era rimasta lì e c’era ancora dopo tutti questi anni, anche ora. Anche adesso che lui aveva paura, e lei gli teneva la mano.
Non erano stati anni facili, ma lei aveva un senso del dovere, un’educazione, un obiettivo, una cultura, insomma tutto: tutto contro di lei, contro la sua libertà, la sua dignità.
Ora guardava il vecchio che le stava accanto, la mano rugosa, lo sguardo ormai liquido, i sottili capelli radi e imbiancati, chiedendosi se avesse fatto bene, se fosse stato giusto chiudere la sua vita intorno a lui, che sarebbe invecchiato, si sarebbe ammalato, avrebbe avuto ancora più bisogno di lei, prendendole quello che restava della sua indipendenza.
Si chiedeva se aver cresciuto due figli fosse un premio abbastanza grande per una vita derubata di tutto ciò che aveva sognato: amore, passione, condivisione.
Una folata di vento la fece stringere di più nella sua giacca parigina, ormai grande per una donna anziana e rinsecchita.
Lui carezzò la giacca: la ricordava ancora.
«Ho paura», disse.
«Lo so, ma non devi. Ci sono io con te, e ci sarò fino alla fine. Ti terrò la mano, lo prometto».
«I ragazzi?», chiese esitante.
Lei fece un gesto evasivo.
«Sai come sono. Ma ti vogliono bene, mi hanno detto di salutarti».
Annuì. Non sembrava triste, non per questo.
Accanto a loro due bambini sui dieci anni, forse meno. Immobili e serissimi, uguali come due gocce d’acqua.
Sembravano i protagonisti della Trilogia della città di K. di Ágota Kristóf. Sguardo deciso, come pronti a tutto, forse lo erano.
Anna guardò di nuovo suo marito cercando nelle pieghe della pelle il ragazzo che l’aveva fatta innamorare, il primo e l’unico con cui avesse fatto l’amore, l’uomo che aveva sposato, con cui aveva fatto due figli.
Ma non ce n’era traccia.
Questo povero vecchio non aveva nulla di quell’uomo meraviglioso, neanche più il colore degli occhi.
Era la versione anziana dell’uomo che l’aveva fatta soffrire dicendole di amare un’altra, che poi era tornato una sera con una giacca e delle rose per cercare di salvare il suo matrimonio.
Che aveva sempre pensato, da quel momento, di aver espiato. Che bastasse aver
capito, essersi pentito, aver giurato eterno amore.
E lei, lei era rimasta. Per i figli certo, per la famiglia, gli amici, le consuetudini; un po’ anche per lui.
Ma anche perché non c’era nessun posto dove andare, nessun luogo dove nascondersi, nessun altro da amare.
Era rimasta perché quella era la sua vita, e non erano bastati quaranta anni, all’uomo che le sedeva accanto, per capire che lei era morta quel giorno e tutto il resto non aveva più importanza.
E così gli anni erano passati, con lei a rassicurarlo, a dirgli che lo aveva perdonato, che era felice, che non poteva desiderare di meglio.
Un inserviente la distolse dai suoi pensieri, le fece un cenno, lei strinse più forte la mano del marito.
Fecero lentamente i pochi metri che li separavano dal cancello.
Dietro di loro, i due gemelli li seguivano in silenzio, senza tradire impazienza.
Arrivati al piccolo cancello di ferro, l’inserviente chiese:
«Siete sicuri?».
Annuirono.
L’uomo aiutò il marito a sedersi nello spazio designato.
Lei lo ringraziò e andò a sedersi accanto a lui, che di nuovo le prese la mano, stringendola stavolta fino a farle male.
«Stammi vicino».
«Sono qua con te,» lo interruppe «come sempre».
Le sfiorò la guancia con un bacio e si rilassò.
Guardò avanti a sé mentre lei per un’ultima volta lo osservò incuriosita.
Non ci fu tempo per niente altro.
Un rumore metallico.
Un fischio fortissimo.
Una sbarra che calava davanti a loro.
La sensazione di precipitare nel vuoto.
E così, tenendosi per mano, fecero il loro ultimo giro sulle montagne russe.

Rodolfo Cardarelli

34-Villino delle fateUn luogo amico
Arrivò a via Tagliamento alle prime luci dell’alba. Non una di quelle luminose albe romane che d’estate preannunciano l’apparizione di un sole accecante che via via ricaccia le ombre notturne fin negli androni e sotto le automobili parcheggiate, ma una pallida alba invernale, giusta per la foschia novembrina. Le strade erano ovviamente deserte – di domenica mattina così presto non va in giro nessuno – e Marco poté guardarsi intorno con calma, seguendo con gli occhi grigi i contorni di quei palazzi così familiari resi indistinti dalla penombra e dall’umidità. Faceva freddo, e fredda era la mano con cui in tasca stringeva la pistola.
Non avrebbe mai potuto permettersi di viverci, ma quella era la zona di Roma che amava di più: il quartiere Coppedè. Da sempre aveva l’abitudine di esplorarlo, inoltrandovisi da punti sempre diversi, di mattina e al crepuscolo, e spessissimo di notte, quando le ombre nascondevano colori e disegni ma non le colonne, i merli e i grotteschi. E, sempre, vi si era sentito come a casa, confortato dall’inevitabilità di quelle linee apparentemente assurde che invece raccontavano un mondo molto più umano e ospitale di quello che si agitava poco più in là nel frastuono di uffici, negozi e tram. A casa, studiava la simbologia delle decorazioni e cercava di fissare sulla carta le forme precise quanto irregolari dell’architettura eclettica. Le decomponeva nei loro elementi, ne ricostruiva il gioco di accostamenti e contrapposizioni, quell’eccesso così calcolato, che aveva riutilizzato spesso nelle sue scenografie teatrali, da Amleto a Brecht.
Ed ora era lì, per fare la sua ultima visita a Coppedè. Ormai aveva deciso, ma voleva che tutto finisse in un luogo amico, dove si sentisse a suo agio, protetto, e nessun luogo gli era più amico di quel quartiere. Questa volta entrò dall’arco di via Dora, quasi solennemente, in fondo si trattava di un’occasione speciale. Si fermò a osservare la piccola vasca con i pesci, i fregi dell’arco, il lampadario in ferro battuto, come se fosse per la prima volta. Poi si incamminò lentamente verso la piazza, sorridendo mentre passava davanti ai palazzi che conosceva così bene. Sedette ai piedi della fontana, col respiro corto e la mano sempre stretta sul calcio della pistola. «Questo è il posto giusto», pensò. «Da qui, tutto quello che vedo reca il segno di uno sforzo deliberato per evitare la banalità, l’inutile “funzionalità”». Estrasse la pistola.
Guardandosi intorno, gli parve però che tra i palazzi a lui ben noti, verso via Brenta, si ergesse una torretta che non riconosceva, e più la guardava, più sentiva crescere l’assurdo dubbio che non ci fosse mai stata. Si alzò e si avvicinò a quell’edificio, che era perfettamente in stile col quartiere, e che pure Marco avrebbe giurato di non aver mai visto. Per di più, all’altezza dell’edificio si diramava una stradina privata, anch’essa mai vista prima. Eppure aveva passeggiato centinaia di volte da quelle parti, e aveva riprodotto ogni scorcio del quartiere nei suoi disegni. Era proprio impossibile che ci fosse un angolo che lui non conosceva, tra l’altro un angolo di grande fascino, vista la bellezza dell’edificio e del tratto di via che riusciva a vedere. Dimentico per un attimo di se stesso, si incamminò per la stradina. Si ritrovò a passare tra splendidi palazzi che, ne era sicuro, l’architetto Gino Coppedè non aveva mai progettato. La stradina sembrava sbucare in via Ombrone, ma in un punto che, pur sembrando familiare a Marco, era in qualche modo diverso rispetto alle visite precedenti. Era come se il carattere irreale del quartiere si fosse materializzato, deformando e rendendo cangiante la struttura di vie e costruzioni. Marco camminò a caso ancora per un tempo indefinito, finché non si trovò nuovamente a piazza Mincio.
Il sole nel frattempo s’era un po’ alzato, e c’erano un paio di persone in piedi accanto alla fontana; sembrava che discutessero, indicando una specie di fagotto abbandonato sul selciato ai loro piedi, che curiosamente aveva una forma quasi umana. Marco restò per un attimo a guardare la scena attraverso l’aria mattutina ancora un po’ opaca, come se si trattasse di una rappresentazione di cui non comprendeva il tema, poi si guardò intorno, e prevalse in lui il desiderio di scoprire cosa si nascondesse in quella via che si apriva dall’altra parte della piazza, una via che non c’era mai stata, neanche quando poco prima lui era passato da quello stesso posto. Si incamminò, mentre udiva distrattamente il suono di una sirena che si avvicinava. Ammirò i merli di un piccolo edificio ocra, dietro il quale si intravedeva un giardino delizioso; chissà dove sbucava questa via, familiare eppure sconosciuta, chissà cosa lo aspettava dietro l’angolo. I suoni alle sue spalle si fecero più indistinti, ma il quartiere stava pian piano animandosi, e dalle case cominciavano ad uscire persone che si avviavano pigramente di qua o di là. Marco sentì la voce del quartiere, e sorrise.

Stefano Machera

34-Diga Vajont vista da LongaroneL’ondata
Accadde un sabato di settembre.
Quella mattina il fiume era calmo, L’acqua, limpida, scorreva con rumore continuo e ipnotico, turbato appena dallo schiocco di ciottoli oziosi rotolanti sul fondo, lo stormire delle foglie e il trillare dei passeriformi saltellanti sulla riva, in cerca di cibo.
L’ingegner Tommasi camminava sul ponte, una mano in tasca, l’indice dell’altra stretto tra le pagine di Ogni caso, il libro di poesie che accompagnava i suoi pensieri nella rituale passeggiata del fine settimana; pigramente si appoggiò al parapetto.
Il pensiero vagava in quello spazio superficiale della coscienza che non tocca le zone più intime e nascoste della personalità. Seccature, progetti quotidiani, vita spicciola, soddisfazioni e noie immediate. Piacevole, in fondo. Tranquillizzante. Da tempo evitava di sollevare lo strato protettivo della sua vita agiata, sicura, che scorreva placida in leggerissima pendenza in un paesaggio, si raccontava, idilliaco.
Diede uno sguardo distratto al torrente, premendosi con un gesto istintivo gli occhiali sul naso, perché non scivolassero in acqua.
Ed eccola, imprevedibile e improvvisa, inutili avvisaglie inascoltate, il rapido svolazzare dei pettirossi e il raffreddarsi subitaneo dell’aria.
Un tuonare sordo, come un brontolio della terra, lo schiaffo del vento e lo scroscio devastante.
L’ondata, infine, esplosione incontenuta di forze mal represse.
«La diga», capì Tommasi. La diga. Aveva ceduto.
«Poteva accadere. Doveva accadere. È accaduto. È accaduto prima. Dopo. Più vicino. Più lontano. È accaduto non a te».
Mentre correva a più non posso visualizzò in rapide fotografie gli anni impiegati nella costruzione di quell’opera, le speranze, l’entusiasmo da giovane ingegnere, l’apporto da parte delle maestranze, lo stupore degli astanti all’inaugurazione, l’orgoglio della responsabilità nell’effettuazione dell’opera. Un’opera titanica. La Grande Diga. La “sua” Grande Diga.
Ed ora: il crollo. Tutto inutile, finito, svanito.
Distrutto, ora, sotto il suo sguardo attonito, terrorizzato. Impotente.
La fuga, l’urgenza, il piano di evacuazione. L’unica sua soddisfazione. Non c’erano state vittime. Anzi, secondo i media era risultato essere un esempio di perfetta organizzazione, di illuminata prevenzione del rischio.
Solo qualche danno alle cose, auto e qualche fienile, e un povero diavolo che pescava da anni nella stessa ansa del fiume, in prossimità di una grotta, che vi era rimasto infine intrappolato.
Alla fine, il progettista Tommasi ne era uscito con le ossa rotte, ma la testa ancora alta.
Si era trattato di un evento anomalo. Una frana imprevedibile scesa da un monte giudicato inamovibile.
L’aveva scampata.
«Ti sei salvato perché eri il primo. Ti sei salvato perché eri l’ultimo. Perché da solo. Perché la gente. Perché a sinistra. Perché a destra. Perché la pioggia. Perché un’ombra. Perché splendeva il sole».
Però Tommasi, l’uomo Tommasi, l’aveva capita.
Oh, se l’aveva capita!
Glielo aveva ripetuto lui, il fiume.
La sua lezione.
Ora gliela ripeteva sussurrando ogni giorno, quando prendeva l’impermeabile e di buon passo costeggiava le rive del torrente osservandone i sassi bianchi e ascoltandone gli spruzzi dispettosi.
«Non puoi domarmi. Io vincerò.
Sbarrami, fermami, deviami, stringimi…
Ma io vincerò.
Ho tempo, e vincerò.
Salterò, mi infiltrerò, spingerò e sfonderò, serpeggerò, mulinerò, romperò ogni diga che costruirai.
Tu da me non puoi difenderti.
Passerà il tempo, guadagnerai la speranza, l’illusione di domarmi, ma io a
rriverò a travolgerti.
Vuoi arginare fiumi, sentimenti, vecchiaia e morte?
Arrenditi, invece.
Assecondami.
Cavalcami, tuffati nelle mie acque, bàgnati, gioca con me.
Ma non mi arginare, non mi avversare, non mi costringere.
Non è la mia natura, e non ti servirà a nulla».
«Dunque ci sei? Dritto dall’attimo ancora socchiuso? La rete aveva un solo buco, e tu proprio da lì?».
Una settimana dopo, l’ingegnere rincasò dal lavoro stordito, si tolse gli stivali e ristette per ore sulla sedia della cucina, il libro aperto sul tavolo.
«Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta, come mi batte forte il tuo cuore».
Il giorno seguente stracciò tutti i progetti, lasciò la moglie e la casa, inforcò il motorino per arrivare alla stazione e partì con la persona che amava per destinazione ignota.
Si informò prima, una sola domanda. Chiese che in quel paese, di dighe, non ce ne fosse neppure una.
[Nota: tratti i brani virgolettati in corsivo sono tratti dalla raccolta poetica Ogni caso di Wisława Szymborska].

Isabella Franchini

Le immagini scelte per corredare i tre racconti sono: le montagne russe nel parco dei divertimenti di Mirabilandia a Ravenna; il Villino delle fate nel Quartiere Coppedè di Roma (fonte: http://it.wikipedia.org/; autore: Lalupa); la diga del Vajont vista da Longarone.

Giuseppe Licandro

(LucidaMente, anno VIII, n. 91, luglio 2013)

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Tags: amoreanobiidigafiumemontagne russequartiere coppedèraccontiroma
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