Massimiliano Panarari e Franco Motta nel loro recente saggio “Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell’Italia” (Marsilio) sostengono che alla base delle peculiarità negative del nostro paese vi sia anche il mancato successo delle élites riformatrici – pragmatiche e antidogmatiche – combattute dagli apparati conservatori. In particolare, i tre capitoli finali si occupano di…
Per gentile concessione della rivista che lo ha ospitato, pubblichiamo uno scritto del nostro direttore Rino Tripodi, apparso in cartaceo, col titolo Contro le caste di sempre, sul numero 11 (novembre 2013, pp. 54-56) di mondoperaio, «rivista mensile fondata da Pietro Nenni». Una ricostruzione storico-politica che ben si inserisce nel tema di gennaio 2014 di LucidaMente: la memoria.
Se prendiamo l’assunto di Karl Popper, secondo il quale una open society si caratterizza per mobilità sociale, riduzione delle disuguaglianze, circolazione delle idee, affrancamento dai dogmatismi… cosa possiamo dire dell’Italia? Caste e mafie; familismo tribale; assenza di disinteressate virtù civiche (già denunciata nel primo Ottocento da Giacomo Leopardi); prevalenza del tornaconto particolare e individuale sui legittimi interessi comuni; diffidenza verso l’onestà; mancanza di presa di posizione verso torti/ragioni, giusto/sbagliato; ostacoli di ogni genere frapposti alla meritocrazia; scarso pragmatismo; demagogia, populismo, incultura; bigottismo e ipocrisia; paura del “diverso”, delle novità, delle riforme.
E, purtroppo, tali peculiarità negative che connotano la nostra nazione ormai rientrano in una persistenza storica di lunga durata. Insomma, l’Italia è un paese drammaticamente lontano dagli standard che caratterizzano le mature democrazie occidentali. La tesi di Massimiliano Panarari e Franco Motta, espressa nel loro interessante saggio Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell’Italia (Marsilio, Padova, 2012, pp. 224, € 16,00; vedi Quei «virtuosi» che avrebbero potuto salvare l’Italia), è che nel nostro paese pur esistettero élites «virtuose» le quali avrebbero potuto mutare il corso della storia nazionale nella cultura, nella religione, nella scienza, nella politica, ma le loro proposte riformatrici furono accantonate, talvolta per propri limiti, più spesso a causa delle resistenze conservatrici e interessate allo status quo (e forse non è un caso che l’uscita dell’opera sia stata accompagnata da “stroncature” provenienti da “destra”; vedi Se la stampa “moderata” non legge con attenzione…).
Senza avere la pretesa di essere esaustivi sulle minoranze italiane, nei sei capitoli del libro i due autori descrivono e analizzano, in successione: i religiosi del Cinquecento attratti o influenzati dalla dilagante Riforma protestante; gli scienziati sperimentalisti della scuola galileiana nel XVII secolo; i giacobini degli anni del Triennio rivoluzionario 1796-99; gli igienisti della stagione positivista tardo-ottocentesca; i social-riformisti del movimento cooperativo; i liberali di sinistra che guardavano al movimento operaio. In questo nostro intervento intendiamo rivolgere la nostra attenzione alle minoranze dall’Ottocento in poi trattate nel volume, ossia nei capitoli IV, V e VI, opera di Panarari.
Mirabile – e toccante, soprattutto se pensiamo all’odierno cinismo – è il lavoro sanitario compiuto nell’Ottocento, dopo l’Unità d’Italia, da Le minoranze della salute pubblica. Gli igienisti (capitolo IV). Influenzati dal Positivismo e dalle nuove acquisizioni scientifiche provenienti da Francia, Germania, Inghilterra, nelle discipline antropologiche, biologiche, mediche, psicologiche, statistiche (scienze esatte e scienze sociali), spesso stimolati dalle denunce della letteratura naturalista e verista, centinaia di medici (da “luminari” universitari a umili medici condotti) intrapresero vere e proprie crociate – non prive di moralismo – contro le infezioni, le malattie, e quelli che oggi chiameremmo “stili di vita sbagliati o a rischio” (alcoolismo, promiscuità sessuale). Come si collocavano politicamente questi “operatori sanitari”-apostoli? Il bello è che tali riformatori provenivano sia dal campo liberale (soprattutto dalla Sinistra storica), sia dal socialismo (alcuni esponenti dell’Associazione dei medici condotti). In comune, però, come tutto il movimento positivista ottocentesco, avevano l’esperienza sul campo, il pragmatismo, uno spirito laico che vedeva nelle superstizioni cattoliche, nell’arretratezza indotta dal clero, ecc., un nemico per la salute delle masse popolari, in particolare contadine, denutrite e malaticce. Lo stato liberale, succube (in tutti i campi) della dottrina liberista del laissez faire, certo non incoraggiò più di tanto la loro opera.
Roma, settembre, 1900: al Congresso del Partito socialista italiano (Psi) prevale il “programma minimo” di Filippo Turati, ovvero la scelta parlamentare e un gradualismo teso a rivendicare obiettivi concreti al posto del sogno rivoluzionario, peraltro non accantonato. Da qui parte il quinto capitolo del libro di Panarari e Motta, intitolato Le minoranze social-riformiste (e cooperative) dell’Italia di mezzo. Il progetto turatiano è caratterizzato dal pragmatismo, tanto che al termine “riformismo” egli preferiva quelli di “socialismo concreto” o di “socialismo positivo”. Il campo d’azione di maggior successo di tale movimento politico è costituito dal cooperativismo, una pratica che non apparteneva solo ai socialisti, ma a tutti i filoni progressisti italiani dell’epoca (repubblicani, mazziniani, radicali), e che col tempo sarà fatta propria pure dall’universo cattolico, anche in nome del superamento dello scontro capitale/lavoro. I laboratori delle cooperative furono Toscana, Marche, Umbria, Romagna, ma soprattutto l’Emilia, a partire da Reggio.
E proprio reggiano è Camillo Prampolini, la figura di maggior spicco del movimento cooperativo. Le sue più importanti peculiarità furono le capacità comunicative (con un’efficacissima modalità di propaganda, caratterizzata da un’esposizione semplice e ricca di esempi) e un “evangelismo socialista” (o “socialismo evangelico”). All’epoca, infatti, il moralismo, tipico della corrente riformista del socialismo italiano (vedi Edmondo De Amicis), e la tensione etica erano considerati assimilabili a quelli del cristianesimo “primitivo” delle origini. Da qui il rifiuto dell’ateismo irridente (che caratterizzava soprattutto gli anarchici), anche per avvicinarsi alle masse mostrando loro che era proprio il socialismo l’erede diretto del Gesù rivoluzionario, in contrapposizione a una Chiesa e ai suoi sacerdoti schierati con gli oppressori del popolo.
Una rivoluzione pacifica costituita da un «mix di municipalismo, cooperazione, camere del lavoro, leghe di resistenza, creato e dispiegato dai riformisti». Un progetto di riforma della società perfettamente riuscito a livello locale e municipale (il “Comune socialista”). Un esempio di economia sociale e solidale oggi più che mai attuale, a tal punto da essere apprezzato dal grande filosofo ed economista indiano Amartya Sen. L’attività di Prampolini si estese dalla materia fiscale a quella scolastico-educativa, dallo sviluppo dei servizi pubblici alle municipalizzazioni, sempre avendo come cardine mobilitazioni pacifiche, propositive, con un proselitismo intelligente in grado di coinvolgere e responsabilizzare le masse, tramutate in società civile consapevole. E, aspetto altrettanto importante e attuale, rifiutando lo stato accentratore e lo statalismo.
L’idea di un’Italia diversa, migliore e più avanzata. È questo il sogno che accomuna i personaggi trattati nel sesto e ultimo capitolo (Uno “speciale liberalismo”) di Elogio delle minoranze. Liberalsocialisti, radicali di sinistra, socialisti liberali, liberaldemocratici… Come aggregare semanticamente questa galassia minoritaria? Forse il termine più adatto potrebbe essere quello statunitense, liberal. Tuttavia, al di là del tentativo di trovare un lessico unificante, ciò che accomuna tali gruppi è lo spirito combattivo e polemico, tipico di una tensione etica civile, e l’obiettivo di far incontrare e convergere liberalismo, democrazia e socialismo per costruire un paese migliore. Un patriottismo di sinistra (che oggi pare finalmente manifestarsi) antidoto agli aggressivi nazionalismi.
È la Rivoluzione liberale (settimanale, 1922-1925) di Piero Gobetti, che auspicava un liberalismo che tenesse conto delle masse operaie, anzi le includesse nell’Italia liberale, divenendone attori partecipi e consapevoli. È il Socialismo liberale (1929) di Carlo Rosselli, fondatore di Giustizia e Libertà, acuto e pessimista critico della storia italiana e del suo limaccioso «sottosuolo». È il visionario – per l’epoca – miraggio federalista ed europeista di Altiero Spinelli, che dal confino stilava, con Ernesto Rossi, Per un’Europa libera e unita (“Manifesto di Ventotene”, 1941), una dimostrazione di come tali pensatori fossero lungimiranti e “rivoluzionari”. Giacché, in tempi di crisi estrema, servono soluzioni davvero nuove e paradossali: pensare l’impensato, come sarebbe necessario oggi. È l’azionismo di Norberto Bobbio, caratterizzato dalla ricerca di far procedere insieme rivoluzione liberaldemocratica e riforma sociale. È L’Ircocervo, ovvero le due libertà (1945), stranissimo animale liberalsocialista inventato da un altro azionista, Guido Calogero. È il settimanale Il Mondo (1949-1966) e il Partito radicale (1956) di Mario Pannunzio.
È la nonviolenza di Aldo Capitini, pacifista e teorico dell’“omnicrazia”, il potere di tutti su tutto, contro i rischi celati in seno agli stessi regimi democratici, e fautore di un rinnovamento morale degli individui. E, ancora, solo per citarli e invitare il lettore ad approfondirli: dai precursori Gaetano Salvemini, Francesco Saverio Nitti, Antonio De Viti De Marco, Napoleone Colajanni, Luigi Pinciani, Carlo Francesco Ferraris, Francesco Saverio Merlino, Edoardo Giretti, ai liberaldemocratici Giovanni Amendola, Nicolò Carandini, Nicola Chiaromonte; dai vari Nello Rosselli, Ignazio Silone, Filippo Burzio, Guido Dorso, agli azionisti Ferruccio Parri, Piero Calamandrei, Piero Pancrazi, Vittorio Foa, Alessandro Galante Garrone, Guido De Ruggiero, Manlio Rossi Doria, Emilio Lussu, Leone Ginzburg, Ugo La Malfa; fino ai più recenti “illuministi”, quali Federico Caffè, Adriano Olivetti, Antonio Giolitti, Raffaele Mattioli, Bruno Visentini. Di alcune di tali figure (Colajanni, Salvemini, Gobetti, Carlo Rosselli, Capitini, Calamandrei, Calogero e Bobbio), si è occupato Nunzio Dell’Erba nel suo Intellettuali laici nel ’900 italiano (Vincenzo Grasso editore); vedi Quegli otto “eroi” liberalsocialisti della laicità italiana.
In una nazione clericale stretta nella morsa di due chiese, quella cattolica e quella comunista (proverbiale l’ostilità di Palmiro Togliatti per le élites che abbiamo rapidamente delineato, il “partito degli intellettuali”), questo gruppo di pensatori è guardato con sospetto, quando non ostacolato ed emarginato, condannato a essere sempre una minoranza, spesso inascoltata. Eppure, essi non smettono neanche per un attimo di avvertire il senso della missione degli uomini di cultura, un principio di etica responsabile, nella consapevolezza – o speranza – che sono «le minoranze consapevoli ed attive» (Salvemini) a fare la storia, analizzando con occhio lucido la realtà, ideando nuove soluzioni e trascinando le masse verso scenari meno angusti e più favorevoli anche a loro stesse.
E la proletarizzazione dei ceti medi, la loro decadenza economico-culturale, grazie alla duplice azione della precarizzazione dilagante e della deturpante invasività della sottocultura televisiva (alla quale si aggiunge la devastazione della scuola pubblica), non è forse una risposta dei poteri forti dell’establishment nei confronti di uno strato significativo della classe borghese, dal quale provenivano le minoranze virtuose sopra riassunte, espressione delle più aperte componenti dei ceti medi in lotta contro la conservazione? Del resto, dagli anni Sessanta del XX secolo, con la scolarizzazione di massa (estesa pure alle classi più popolari, ormai sulla strada dell’ascesa sociale), anche buona parte della borghesia italiana cominciava a essere ceto critico propulsivo progressista e non più passivamente conservatore. La neotelevisione e la stretta economica hanno fatto sì non solo che scomparisse il dinamico impulso civile della classe operaia, oggi in via di estinzione e comunque divenuta, a causa della perdita identitaria, semplicemente un ceto basso, ma altresì che la medio-piccola borghesia, desertificata e spappolata, si fondesse con essa al ribasso, formando un unico ceto medio-basso, incolto, fuorviato dal populismo e senza impronte progressiste.
Rimane attualissimo il messaggio di questo “speciale” liberalismo, intriso di impegno per laicità e diritti individuali, pronto a denunciare con puntualità monopoli e oligopoli (le odierne “caste”), nonché permeato di una ricchezza culturale che ci può essere invidiata dalle altre nazioni “liberali”. Un’azione etica più che ideologica, basata sulla protesta congiunta alle proposte, sul pragmatismo contro tutti i clericalismi e dogmatismi. Un messaggio che costituisce una miniera di spunti per la costituzione di una nuova, vera sinistra italiana. Un elitismo democratico antidoto al populismo imperante o al democraticismo integrale e integralista della Rete, entrambi segnati da incultura, ignoranza, volgarità, becera aggressività. Per concludere con le stesse parole di Panarari, «una minoranza di intellettuali lucidissimi e “scomodi”, sempre e comunque, questi esponenti di una forma “di lotta e di governo” del liberalismo che, a ben guardare, si batteva anche per convertirci finalmente in un paese normale».
Le immagini: le copertine di Elogio delle minoranze e del n. 11 di mondoperaio, francobollo raffigurante Camillo Prampolini, gli autori Massimiliano Panarari e Franco Motta.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno IX, n. 97, gennaio 2014)
Complimenti Rino! Bellissimo scritto.
Grazie, Marco. Purtroppo, in Italia non hanno vinto gli illuminati pensatori di cui sopra…
L’anamnesi è incompleta, conseguentemente, la diagnosi è insufficiente e la terapia assente. La domanda, infatti, è: come mai la componente riformista non prevale? Ad essa non c’è risposta; il predominio degli antiriformisti sembra il prodotto di una fatale calamità. Ma non è così.
Il popolo italiano non ha cultura costituzionale, non conosce i valori che sono contenuti nella prima parte della Costituzione. Non sa: a) che questa Carta non è stata sottoposta alla sua approvazione, la richiesta di assoggettarla a referendum fu respinta dall’Assemblea Costituente; b) che tale Carta è il prodotto del protagonismo degli allora due partiti di maggioranza relativa, la DC e il PCI, essa è, pertanto, il frutto di un arco politico delegittimato dalla storia; c) che nel corso dei lavori dell’Assemblea Costituente la componente riformista, rappresentata da B. Croce, P. Calamandrei ed anche da P. Nenni, fu messa in minoranza; d) che questa stessa Assemblea rifiutò di incentrare il testo costituzionale sul primato dei “diritti umani” (human rights), disponendo, pertanto, il cittadino in funzione dello Stato e non lo Stato in funzione del cittadino; e) che essa ha rifiutato di incentrare lo sviluppo del Paese sull’economia di mercato, decretando, invece, un apparato burocratico elefantiaco, incompatibile con le sue esigenze; f) ha statuito la confessionalizzazione dello Stato, ciò che dà conto dell’attuale composizione governativa, costituita da chierichetti, da “papisti” al servizio del nuovo “duce” del popolo italiano.
La terapia? Acquisire una reale conoscenza della prima parte del testo costituzionale, del disegno politico in essa contenuto; mutarne, nel rispetto dell’art. 138, i contenuti in modo da invertire il rapporto tra lo Stato e il cittadino, inducendo, finalmente, il primato delle élites riformatrici, l’allineamento dell’Italia agli standard dei Paesi avanzati.