La delicata umanità di Umberto Veronesi: la malattia, il dolore, la morte e l’eutanasia
“[…] tre grandi nervi scoperti: il rapporto dell’uomo con la malattia, il dolore e la morte; il rapporto fra potenza e impotenza della medicina; il rapporto fra medico e paziente. Se le leggiamo con attenzione, tutti noi, medici e no, malati e no, riusciamo a sentire su di noi l’angoscia del malato grave. E ci accorgiamo che questa angoscia non deriva tanto (o soltanto) dalla paura della fine ma la perdita di dignità causata dal dolore e dalla aggressività delle cure.
È il dolore che annulla la persona e che riduce l’uomo a cosa. Per questo bisogna usare ogni mezzo per evitarlo. Inoltre sentiamo una nuova paura nei confronti della fine della vita…
Mentre un tempo il terrore unico e universale era quello di morire, ora si associa anche quello di essere tenuti tecnologicamente in una vita artificiale. E qui arriviamo al secondo punto: la potenza e impotenza di una medicina che cura sempre di più e guarisce sempre di meno. Ma qual è allora il nuovo limite della cura? Se la medicina non può guarire, deve davvero ugualmente curare per dimostrare le sue capacità? E se sì, fino a che punto e a quali costi umani, per non diventare accanimento terapeutico e ripiombarci nel dramma del dolore? Paradossalmente il grande sviluppo dei mezzi tecnici e tecnologici delle scienze biomediche hanno allargato in molti casi il divario fra possibilità di cura e possibilità di guarigione, mettendo i medici di fronte a dilemmi sempre più complessi che riguardano non solo la malattia del paziente, ma la vita e la sua fine. Ed eccoci al terzo punto il rapporto medico-paziente. Il medico moderno ha dimenticato l’esistenza di una medicina dei gesti (le parole prima di tutto, ma anche gli sguardi e le carezze), di una dimensione soggettiva sempre presente nella malattia, ogni malattia, anche la più grave, che va compresa e anch’essa curata. E’ un medico che spesso non sa più vedere la differenza fra curare la malattia e curare il malato e tra curare il dolore e curare la sofferenza. […]
Abbiamo strumenti da analizzare, già utilizzati in altri paesi: dal consenso informato alle cure (che per fortuna è un obbligo anche in Italia), al testamento biologico, fino alla legalizzazione dell’eutanasia. Vorrei che su questi temi l’attenzione fosse alta, la riflessione profonda e che nel dibattito si ascoltasse sempre la voce dei malati”.
(Il medico e l’angoscia delle vite sospese, in la Repubblica, 19 ottobre 2006)
Umberto Veronesi
LA RILETTURA
La condizione ottimale dell’esistenza dovrebbe consistere, come giustamente afferma Epicuro nella Lettera a Meneceo, nel “non soffrire quanto al corpo e non essere turbati quanto all’anima”. Che senso ha, allora, vivere lungamente, ma sottoposti ai tormenti del dolore fisico e morale? In nome di cosa si può accettare che una persona gravemente malata assista impotente alla lenta dissoluzione del proprio corpo, riducendosi a condurre un’esistenza sempre più infelice, talvolta totalmente dipendente da una sofisticata apparecchiatura? Perché prolungarne oltre ogni ragionevole sopportazione l’agonia? Pur rifiutando le pulsioni necrofile di un mondo sempre più autodistruttivo, non ci sentiamo di disapprovare coloro che – come hanno fatto, ad esempio, Ramón Sampedro, Luca Coscioni, Vincent Humbert, Giovanni Nuvoli e Piergiorgio Welby – chiedono di porre fine alle proprie inutili sofferenze e di interrompere cure palliative che eufemisticamente vengono definite “terapie”, mentre, in realtà, di “terapeutico” hanno ben poco. Per cui, più che di “accanimento terapeutico”, si tratta di ancor peggio: di trattamento medico forzato e violento.
Il divario fra cura e guarigione – Umberto Veronesi, nell’articolo sopra riportato, ci rammenta la violenza che un certo tipo di medicina – connessa alla logica del profitto o condizionata dai pregiudizi religiosi – sta perpetrando ai danni dei malati, evidenziando, con acutezza, quanto si sia allargato al giorno d’oggi “il divario fra possibilità di cura e possibilità di guarigione”. L’illustre oncologo affronta temi di grande attualità, come l’approvazione del testamento biologico (di cui è stato finora uno dei mentori più autorevoli) e la legalizzazione dell’eutanasia, rispetto ai quali la legislazione italiana appare in enorme ritardo. Le sue riflessioni, tuttavia, investono più in generale il ruolo della scienza medica nella società odierna e il rapporto tra medici e malati. E’ indubbio che, grazie anche ai progressi della ricerca farmacologica, l’età media della popolazione dei Paesi più industrializzati è sensibilmente aumentata nell’ultimo cinquantennio. Tuttavia, ciò non ha comportato automaticamente il miglioramento della qualità della vita.
Si vive davvero meglio rispetto al passato? – Né si può ragionevolmente sostenere che la salute della maggioranza delle persone sia buona, sol perché se n’è prolungata l’esistenza. Spesso, anzi, le condizioni dei malati tendono a peggiorare nel tempo: i loro disturbi si cronicizzano, diventano dipendenti dai farmaci, bisognosi di continue e costose cure. In molte circostanze – come l’esperienza purtroppo c’insegna – il paziente non guarisce mai e le terapie riescono soltanto a rallentare il procedere inesorabile della sua patologia. E troppo poco si è fatto finora in termini di “medicina preventiva” e di educazione alla salute dei cittadini: l’inquinamento atmosferico, la cattiva qualità degli alimenti (imbottiti di pesticidi, conservanti, antibiotici e quanto altro), lo stress psicofisico, il fumo e l’abuso di alcolici, rendono sempre più vulnerabili gli abitanti del pianeta. Che saranno diventati anche sei miliardi, ma certamente non vivono meglio di trenta o quaranta anni fa!
Curare la persona e non solo la malattia – Toccanti e pregnanti, ricche di delicata umanità, sono le parole di Veronesi, soprattutto quando sottolinea che “il medico moderno ha dimenticato l’esistenza di una medicina dei gesti (le parole prima di tutto, ma anche gli sguardi e le carezze)”. In fondo, proprio questo è il presupposto di ogni sana terapia: non perdere mai di vista la “dimensione soggettiva sempre presente nella malattia”. La componente emotiva, infatti, è fondamentale per combattere efficacemente tante patologie. Se il medico non “ascolta” il paziente (come ha ricordato opportunamente anche Nanni Moretti in una scena del suo film Caro Diario), se non sa in qualche misura confortarlo, se stabilisce contatti freddi e indifferenti, se prescrive soltanto farmaci e basta, allora viene meno alla sua effettiva funzione di terapeuta. Diventa un’appendice delle case farmaceutiche e dimentica di curare la sofferenza complessiva della persona inferma, limitandosi semplicemente ad attenuare o a mascherare i sintomi del malore fisico. E’ tempo, dunque, che la cura dei sofferenti – e non più la vendita dei farmaci, spesso a loro volta iatrogeni, cioè causa di altre patologie – divenga l’obiettivo prioritario della ricerca medica e si realizzi quanto auspicato da Veronesi, cioè che si ritorni ad ascoltare “la voce dei malati”.
L’immagine: la copertina dell’edizione italiana di Je vous demande le droit de mourir di Vincent Humbert (Io vi chiedo il diritto di morire. Pensieri raccolti ed elaborati da Frederic Veille, Sonzogno, pp. 192, € 12,50).
Giuseppe Licandro
(LucidaMente, anno II, n. 23, novembre 2007)
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