Applicazioni di food delivery e servizi on demand ci permettono di consumare da casa: oggi necessità, domani nuova tendenza?
La vista del frigo vuoto è forse tra gli spettacoli più desolanti di questi mesi che passiamo tra le mura domestiche. Il cibo, infatti, è diventato fonte di impiego e consolazione: c’è chi si dedica all’innesto della pasta madre, qualcuno cerca di far germogliare gli scarti degli ortaggi, qualcun altro si cimenta con la sfoglia… Il tempo, in effetti, che prima ci mancava per tutto, adesso è (quasi) l’unica cosa che abbiamo e cercare di riempirlo è ormai la nostra principale occupazione. Ma, se tra un esperimento culinario e l’altro manca qualche ingrediente, che cosa si fa?
Certo, se fossimo ancora in quello che, con un misto di ironia e nostalgia, potremmo ribattezzare A.C. (Ante Covid), la risposta sarebbe scontata: un salto al supermercato. Ora come ora, però, che di salti conviene farne pochi, è meglio concentrare gli sforzi in un’unica spedizione settimanale, frutto di giorni e giorni di preparazione e ripassi della lista della spesa. Sia mai infatti che, dopo aver superato lunghe file ed evitato ogni possibile contatto umano, ci dimentichiamo qualcosa! Ma tutto questo non è necessario, perché l’accesso a un fantastico universo privo di stress e ansia è racchiuso in sole tre lettere: app. E se è vero che ormai esiste un’applicazione per tutto, quelle per fare la spesa e, in generale, per gli acquisti online, rimangono le più conosciute e usate anche dal “popolino”. In un articolo pubblicato su Medium nel marzo 2015 la giornalista americana Lauren Smiley descrive un mondo che oggi in Italia appare ancora futuristico, fatta eccezione, forse, per le grandi città. L’autrice parla di una certa Christina Mallon, una ventiseienne newyorkese impiegata come consulente vendite per aziende tecnologiche. La donna lavora dalle 8,00 alle 21,00 e, non potendo usufruire di una mensa aziendale, si serve di app di food delivery sia a pranzo che a cena.
Nel palazzo del West Village dove vive l’acqua calda è limitata, così si fa sistemare i capelli tre volte a settimana usando Vive, un servizio a pagamento che le costa 100 dollari al mese. Quando alla sera rientra a casa, ha davanti ben tre ore prima di andare a dormire e Alfred, il suo assistente on demand, ha già pensato a tutto il resto. Spesa fatta, vestiti lavati e riposti, pacchi ritirati e consegnati, letto sistemato, tavolo della cucina pulito. Christina è disposta a pagare anche 25 dollari per un’ora di tempo libero, durante la quale può continuare a lavorare e produrre fino a 1.000 dollari, con un guadagno netto del 97,5%. Gli aspetti descritti fin qui sono tutti meccanismi di quanto la stessa Smiley definisce “Shut in economy”, l’economia dei reclusi. «Con il termine Shut in economy si intende, a livello concreto, l’economia del distacco, del confinamento e più nello specifico “dell’on demand”», come viene chiarito da un articolo pubblicato su Shots.it.
È ovvio che non si tratta fenomeni sociali scoperti oggi, ma mai come adesso questo mondo, che per alcuni era ancora sommerso, è sotto gli occhi di tutti. Applicazioni per fare la spesa online, per ordinare cibo d’asporto, per farsi portare medicinali a casa, per vedere film e ascoltare musica in streaming… Insomma, si può fare tutto senza uscire di casa. E ora che questa è una prerogativa essenziale della nostra vita quotidiana, la novità inizia a farsi interessante. I dati riportati da un articolo di Bonculture dell’11 aprile scorso dicono infatti che, grazie al lockdown, gli acquisti online sono aumentati dell’80% e pare che la tendenza sia destinata a stabilizzarsi. In effetti, la comodità di tali servizi è indubbia, ma c’è già chi inizia a drizzare le orecchie. La controversa vicenda dei riders e i soldi che piovono sempre e solo nelle tasche di Jeff Bezos (Ceo di Amazon) e compagni – arricchendo le otto persone che secondo il rapporto Oxfam del 2017 detengono metà della ricchezza mondiale – sono aspetti da non trattare con superficialità. Ma per chi, come la sottoscritta, è già pronta a gridare al complotto è utile capire che anche i produttori locali potrebbero trarre vantaggio da questa tendenza. Se, infatti, collaborando con software house piccole e indipendenti, essi sviluppassero dei propri servizi personalizzati, i clienti potrebbero essere ben contenti di preferirli alla grande distribuzione.
Un esempio virtuoso, in questo senso, è quello del progetto di filiera corta nato a Parigi qualche anno fa ed esportato felicemente in Italia. Si tratta di L’alveare che dice sì!, un concept che si basa sull’economia partecipativa (sharing economy): chiunque, privato o azienda, può aprire il proprio alveare. Ogni settimana i produttori locali vendono i loro articoli online, direttamente ai clienti; il passo successivo è la distribuzione, che avviene nel luogo che ospita l’alveare stesso, nella fascia oraria e nel giorno stabiliti. Parlando di numeri l’Italia, con i suoi 248 hub, è seconda solo alla Francia, che ne ha 747.
E se, causa coronavirus, non mancano le preoccupazioni economiche, ci si può rinfrancare con un articolo del Telegraph che spiega come dopo le grandi epidemie del passato l’economia abbia sempre avuto una brusca ripresa. A riportarci con i piedi per terra, tuttavia, ci pensa uno studio dell’Imperial College di Londra che, dati alla mano, illustra come nel prossimo futuro saranno sempre più frequenti le imposizioni di misure di distanziamento sociale quando i ricoveri nei reparti di terapia intensiva aumenteranno e, viceversa, quelle di riduzione ogni volta che diminuiranno. Si andrà probabilmente incontro, insomma, a ciò che è stato definito “quarantena di massa yo-yo”, con periodi di lockdown alternati a fasi di riaperture. In un articolo pubblicato dalla rivista del Mit (Massachusetts Institute of Technology), il direttore Gideon Lichfield ha spiegato che per arrestare il coronavirus dovremo modificare radicalmente tutte le nostre abitudini: le modalità in cui lavoriamo, ci alleniamo, socializziamo, gestiamo la nostra salute, educhiamo i figli e ci prendiamo cura dei familiari. Lichfield conclude che in passato il mondo è già cambiato molte volte e che lo sta facendo ancora: tutti noi dobbiamo adattarci a un nuovo modo di vivere, lavorare e avere relazioni. Perché, come ha affermato già diverso tempo fa Charles Darwin: «Non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, ma quella che si adatta meglio al cambiamento».
Chiara Ferrari
(LucidaMente, anno XV, n. 173, maggio 2020)