A vent’anni dal suo ultimo album e a poco più di un anno dalla sua scomparsa, ricordiamo l’eccentrica e inquieta musicista irlandese
Sono trascorsi vent’anni da quando uscì I’m Not Bossy, I’m the Boss, l’ultimo album di Sinéad O’Connor, che ottenne un buon successo di pubblico e di critica, confermato dal relativo concerto svoltosi a Terni il 20 settembre 2014 davanti a oltre 5.000 persone. Un album che raccoglieva brani dolenti e pezzi rock, consoni allo stile di un’artista troppo precocemente dimenticata e che si rivela, invece, di una attualità sconcertante.
Un’infanzia difficile
Nata a Dublino, nella cattolica Irlanda, il giorno dell’Immacolata Concezione (8 dicembre 1966) fu battezzata – non casualmente – Maria Bernadette. Quei nomi significavano anche una “scelta di campo”, ben accompagnata da un cognome tipicamente irlandese. Non a caso di lì a poco sarebbe diventata famosa Bernadette Devlin, la “pasionaria” cattolica nord-irlandese di Londonderry, che ebbe notorietà negli anni in cui l’Ulster era insanguinata sia dagli attentati dell’Ira (Irish Republican Army), sia dalla reazione degli estremisti protestanti che volevano rimanere sotto la Corona britannica, sia dalla dura repressione dell’esercito inglese. Un segno del destino? Chissà…
Destino a parte, in quei tre nomi sono certamente contenute la diversità della O’Connor (che nel 2017 cambiò nome e cognome, divenendo Magda Davitt, e, dopo la conversione all’Islam nel 2018, Shuhada’ Sadaqat) e la trasposizione in musica di tormentate vicende personali, poiché è naturale tradurre in versi e in note i sentimenti contrastanti che albergano nell’anima di ogni artista.
Sinéad visse un’infanzia che si preannunciava serena e che invece si rivelò a dir poco problematica a causa dei litigi e delle incomprensioni dei genitori, che poi decisero di separarsi.
All’età di otto anni andò a vivere con la madre, una donna autoritaria con cui ebbe un difficile rapporto, segnato da frequenti gesti di ribellione, come marinare la scuola o rubacchiare nei negozi.
L’inizio di un talento
Terminate le medie inferiori, venne iscritta alla “Newton School” di Waterford, una scuola dove insegnavano docenti dalla mentalità aperta alle idee moderne. Fu proprio uno di loro a convincerla a partecipare al “Tipperary Peace Festival”.
It’s a long way to Tipperary è il titolo di un brano cantato dai soldati britannici nel corso della Prima guerra mondiale. E lungo fu il viaggio nella musica iniziato da Sinéad a partire da quell’evento, il cui esito felice la indusse a proporsi con successo nei pub di Waterford.
All’età di 14 anni si unì al gruppo In Tua Nua con il quale esordì come autrice nel brano Take My Hand, che diventò un successo nel 1984. Seguì la collaborazione con il gruppo Ton Ton Macoute, che le procurò un contratto discografico con l’etichetta indipendente Ensign Records.
Il trasferimento a Londra e il suo esordio discografico
Nel 1985 Sinéad lasciò l’amata-odiata Irlanda per trasferirsi a Londra, dove governava la “lady di ferro”, ovvero la discussa Margareth Thatcher. Nella capitale inglese lavorò al suo primo album da solista (The Lion and the Cobra), da lei stessa scritto e prodotto, che fu pubblicato due anni dopo con immediato successo di pubblico e critica.
Contro il parere di molti scelse come manager Fachtna O’Ceallaigh (cognome poi anglicizzato in O’Kelly), che era legato anche a Bono Vox e agli U2. Fu proprio tale legame a far sorgere la voce maligna secondo cui Sinéad sarebbe stata “la nuova protetta di Bono e compagni”. Voce smentita dai successivi contrasti con Bono, la cui musica, fa l’altro – così affermò senza reticenze – non le era mai piaciuta.
Ma Sinéad se ne infischiava delle chiacchiere altrui. Mix di arte e di follia (sperimentò anche i “paradisi artificiali”), nella vita e nel canto, non rinunciò alla testa rasata, contrastante con i tratti delicati del volto. Una scelta che simboleggiava il desiderio di ribellarsi contro le ingiustizie della società, differenziandosi però dalle creste e dalle tinte estreme delle capigliature punk, divenute ormai di moda. Di sé disse: «Non voglio essere una popstar, ma una cantante di protesta».
Il successo mondiale
La O’Connor stava cavalcando l’onda lunga della popolarità (peraltro mai cercata) dopo che il suo primo album aveva ottenuto consensi a livello internazionale. Per il suo secondo lavoro il manager O’Ceallaigh aveva proposto una cover di Nothing Compares 2 U, brano composto da Prince e pressoché sconosciuto. La O’Connor non ci mise molto a perfezionare la canzone, registrata in un’unica ripresa. Il risultato fu eccellente perché l’intero brano venne ridotto alle parti musicali essenziali, consentendo alla voce ammaliante di Sinéad di assumere una potente centralità.
Nel 2009 il codirettore dell’etichetta Ensign Records, Chris Hill, ha ricordato sulla rivista inglese Mojo il momento in cui ascoltò il brano per la prima volta: «Fachtna, il manager di Sinéad, me lo portò in una cassetta e quando lo ascoltai iniziai a piangere. Mi ero appena seduto lì con le lacrime agli occhi».
La voce angelica dell’allora ventitreenne Sinéad O’Connor e il suo volto parimenti etereo in primo piano, con lacrime accennate nel finale del successivo video diretto da John Maybury segnano la svolta: primo posto delle classifiche di vendita negli Usa, in Gran Bretagna e in Australia e la vittoria di un Grammy (Best Alternative Performance). Particolarmente toccanti sono le parole dedicate alla madre: «Mamma, tutti i fiori che hai piantato in giardino sono morti quando te ne sei andata».
I Do Not Want What I Haven’t Got, il suo secondo album – ancora una volta autoprodotto – viene pubblicato nel 1990. In esso Sinéad sceglie la via dei riferimenti esistenziali, con l’effetto di una toccante e decisa immediatezza.
Musica come ricerca interiore e terapia
In quel periodo la O’Connor ha tuttavia dei ripensamenti e si rende conto di aver parlato troppo e in maniera confusa, rischiando così il fraintendimento delle sue espressioni.
«Raccontavo chi ero – disse – cosa mi era capitato e quanto ero confusa. Stupidamente pensavo che questo mi potesse in qualche modo aiutare». Dissoltasi l’illusione di venire ascoltata e compresa, l’unica alternativa restava quella della ricerca interiore e della capacità di fare musica come terapia.
Vincitrice di due Mtv Award quale miglior cantante donna, Sinéad declina fermamente l’invito a partecipare alle cerimonie di premiazione per protestare contro la commercializzazione dell’arte.
Arriviamo così al 1994, l’anno dell’album Universal Mother (il cui titolo è ispirato ad una grande figura universale che è allo stesso tempo maschile e femminile, pronta ad ascoltare gli esseri umani dando loro conforto). Album che si apre con la voce della scrittrice australiana Germaine Greer, considerata una delle voci più autorevoli del movimento femminista. Universal Mother non ottenne particolari consensi, e pure gli album successivi non sarebbero arrivati a toccare le punte di popolarità dei primi, anche per il rarefarsi delle apparizioni pubbliche della cantante e per l’insufficiente promozione dei suoi lavori.
La fine della sua attività
Dopo un periodo non particolarmente significativo dal punto di vista artistico, la cantante pubblicò nel 2012 l’album How About I Be Me (And You Be You)? Il 2 luglio 2013, in concerto presso Villa Arconati a Castellazzo di Bollate, la cantante eseguì la canzone I Am Stretched on Your Grave che dedicò a papa Giovanni Paolo I.
Il 26 agosto 2014 uscì infine l’album I’m Not Bossy, I’m the Boss, ultimo lavoro della cantante irlandese, che ricevette buoni commenti dalla critica e che raccoglieva, secondo lo stile dell’artista, ballate intrise di dolore accanto a pezzi rock. Il mese successivo partì il suo tour mondiale: prima data a Terni, il 20 settembre, davanti a oltre 5.000 persone. Seguirono i concerti di Amsterdam, Bruxelles, Toronto, Chicago e New York.
Molto sensibile alle rivendicazioni delle donne, si batté per il superamento della guerra fra sessi, facendo propria la prospettiva della Greer, secondo la quale «il contrario del patriarcato non è il matriarcato ma la fratellanza. Compito delle donne è spezzare questa spirale di potere per trovare una possibilità di cooperazione».
Questo è forse uno dei messaggi più importanti che ci ha trasmesso Sinéad O’Connor, un personaggio che avrebbe probabilmente affascinato il suo concittadino James Joyce.
Il suo testamento spirituale
La geniale artista di Dublino ci ha lasciato nel luglio 2023 ed è presto finita – o quasi – nel dimenticatoio, almeno per le grandi masse che si accalcano ai concerti accendendo la luce dei cellulari.
Ma ci restano le sue intramontabili interpretazioni e, soprattutto, l’invito a essere sempre autentici e originali, nell’arte e nella vita, anche a costo di rischiare l’impopolarità e di scontrarci con persone ed ambienti legati a un potere – sociale, economico e politico – che si presenta con volti differenti, ma non tollera le anomalie di chi si discosta dal pensiero dominante e dai dogmi del “politically correct”, accettando solo un anticonformismo di facciata che serve, in fin dei conti, a mascherare le reali logiche del potere.
Nella prefazione alla sua autobiografia (Ricordi, ripubblicata quest’anno in Italia da Mondadori), caratterizzata da una franchezza assoluta non priva di ironia, ha scritto: «Mi auguro, come artista, di ispirare gli altri ad essere se stessi».
Forse è proprio questo il messaggio più importante che ci ha trasmesso la geniale ragazzina ribelle che affascinava i frequentatori dei pub di Waterford ed è rimasta per sempre nei nostri cuori.
Maria Sofia Gallotta
(Pensieri divergenti. Libero blog indipendente e non allineato)
Ottimo articolo!