A vent’anni dalla strage l’odierna commemorazione fa riflettere sugli errori del passato e sugli equilibri internazionali di oggi. Ma, come dimostra l’aggressione ad Aleksandar Vučić, una conciliazione resta molto difficile
11 luglio 1995: le milizie serbo-bosniache conquistano Srebrenica dopo un assedio durato per giorni. La città, dichiarata “zona di sicurezza” dall’Onu e posta sotto il controllo delle truppe olandesi delle Nazioni unite, era divenuta un luogo di ricovero per i profughi della Bosnia orientale in fuga dalla pulizia etnica.
La maggioranza dei rifugiati a Srebrenica erano i cosiddetti “bosgnacchi”, slavi della Bosnia ed Erzegovina convertitisi (più o meno forzatamente) alla cultura e religione musulmana. Nonostante la presenza dell’Onu, l’esercito, guidato da Ratko Mladić e costituito anche da gruppi paramilitari di nazionalisti serbi, conquistò la città senza incontrare troppa resistenza. In maniera vergognosa, i caschi blu non solo non intervennero, ma, quando i miliziani serbi pretesero che le migliaia di bosniaci rifugiati nella base olandese uscissero, acconsentirono. Così, nei giorni successivi, circa 8 mila, tra bambini, uomini e vecchi dai 12 ai 77 anni, vennero trucidati; le donne e le bambine rimaste sole divennero facili vittime dello stupro etnico. Orrori dai quali si origina una polemica tuttora irrisolta.
Il senso di ingiustizia e di impunità di vent’anni fa viene percepito ancora oggi dai famigliari delle vittime e dai sopravvissuti al massacro. «L’Onu ci ha consegnati ai serbi che ci hanno ammazzati» ha dichiarato Atizia Memedovic, membro dell’associazione “Madri di Srebrenica”, intervistata durante lo speciale di Radio 1 dedicato alla strage. «L’unica cosa che ha fatto l’Onu sono le tombe (dice riferendosi al Memoriale di Potočari, dedicato alle vittime del massacro), mentre molte fosse comuni non sono state ancora trovate». Secondo le stime ufficiali, le vittime della strage furono 8.372, tra i quali un bambino di appena due giorni. «È un’immagine vergognosa dell’Onu», ha concluso Atizia. Il processo di identificazione dei corpi non è ancora terminato e prosegue ormai da anni, grazie all’uso del test del dna.
Nonostante le commemorazioni e gli sforzi della comunità internazionale, la rivalutazione dell’operato dei caschi blu da parte del popolo bosniaco non sembra ancora possibile. Recentemente, in occasione dell’anniversario dei vent’anni dalla strage, il Regno Unito ha presentato all’Onu una risoluzione commemorativa che definiva “genocidio” la strage di Srebrenica. La sua approvazione sarebbe stata probabilmente un passo in avanti nel percorso di ricerca di giustizia e assunzione di responsabilità. Un’occasione mancata, poiché la Russia di Vladimir Putin ha posto il proprio veto al documento. All’origine del no della ex Unione sovietica ci sarebbe stata una telefonata al presidente russo da parte del presidente serbo Milorad Dodik, che ha pubblicamente definito il testo della risoluzione «profondamente cattivo».
Mettere in discussione la natura di genocidio della strage di Srebrenica, riconosciuta dalla Corte internazionale di giustizia e dal Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, significa per la Serbia negare in parte la propria responsabilità e costituisce un grave limite al processo di riconciliazione con la Bosnia ed Erzegovina. I rapporti tra le due nazioni rimangono, infatti, molto tesi e l’annunciata partecipazione del primo ministro serbo Aleksandar Vučić alla commemorazione ha scatenato l’indignazione e le proteste del sindaco di Srebrenica e dell’associazione delle madri e dei famigliari delle vittime. E, come diremo tra poco, non è finita lì.
«Ripartire significa, prima di tutto, fare giustizia fino in fondo». Ai microfoni di Radio 1 il presidente della Camera Laura Boldrini ha sottolineato il bisogno di condannare i colpevoli, affinché la giustizia sia il punto di partenza per costruire un futuro di pace e di positiva convivenza tra popoli. Sebbene la responsabilità di quanto accaduto appartenga a tutta la comunità internazionale, la colpa degli autori di questi crimini è totalmente personale e chi li ha commessi deve risponderne di fronte alla giustizia nazionale e internazionale: «La responsabilità di chi ha commesso questi massacri è una responsabilità individuale. Non si può condannare un intero popolo ad avere una colpa per sempre» ha continuato Boldrini, che ha individuato nella stigmatizzazione del popolo serbo un insormontabile ostacolo alla pacificazione. In merito alla mancata approvazione della risoluzione da parte delle Nazioni unite, ha dichiarato: «Il veto della Russia è qualcosa che pesa moltissimo. “Genocidio” è una definizione che la comunità internazionale ha accolto. Rimettere in discussione questo rende ancora più complicato il processo che stiamo cercando di portare avanti». La partecipazione della Serbia alla commemorazione, invece, secondo Boldrini, sarebbe stata positiva: un simbolo di dialogo e di possibile riconciliazione tra le entità coinvolte.
Peccato che il già citato e poco gradito primo ministro serbo Vučić, dopo essere stato contestato al mausoleo di Potočari da una folla che gli ha lanciato sassi e bottiglie, sia stato costretto ad abbandonare la cerimonia di commemorazione. Peraltro, in precedenza lo stesso Vučić aveva diffuso una lettera aperta nella quale condannava l’eccidio senza alcuna ambiguità: «Sono passati vent’anni dal terribile crimine commesso e non ci sono parole per esprimere rimorso e dolore per le vittime, così come rabbia e rancore verso coloro che hanno commesso questo crimine mostruoso. La Serbia condanna in modo chiaro e senza ambiguità questo crimine orribile ed è disgustata da quanti vi hanno preso parte e continuerà a portarli davanti alla giustizia».
Nella tragedia della guerra in Bosnia è possibile tuttavia trovare un risvolto positivo: l’Italia ha saputo essere un approdo, una salvezza, un paese accogliente per i tanti profughi che hanno cercato di mettere in salvo la propria vita. Fatima Neimarlija, arrivata in Italia 23 anni fa come esule e oggi presidente della comunità di Bosnia ed Erzegovina a Roma “Bosnia nel cuore”, ha raccontato a Radio 1 che lei e gli altri profughi in Italia si siano sentiti come in una seconda patria: «Un paese che non avevo mai visitato prima è diventato il paese della mia accoglienza e della mia costruzione sia personale sia formativa». A dimostrazione del fatto che siamo un paese più accogliente di quanto vogliano farci credere. E di questo dovremmo essere orgogliosi.
Crediti delle immagini dopo la cartina: Foto 1; Foto 2; Foto 3.
Vittoria Colla
(LucidaMente, anno X, n. 115, luglio 2015)