I pregiudizi di genere non sono estranei neppure in questo settore. Da Berthe Morisot a Tamara de Lempicka: le vicende di alcune artiste considerate “minori” perché femmine
È difficile essere donna in un mondo di uomini. La maggior parte delle società umane sono sempre state maschiliste e patriarcali e, com’è ovvio, un tale orientamento incide su ogni aspetto di una comunità, compreso quello culturale. Provate a riflettere su chi considerate il più grande nome della storia dell’arte. I sondaggi dimostrano che il più delle volte si pensa una firma maschile.
Andate a visitare il museo più vicino e contate il numero di opere esposte che sono state realizzate da una donna: la percentuale sarà irrisoria. Viene da chiedersi come sia possibile che nella produzione artistica manchino le autrici. La risposta è che ci sono state e ci sono, ma non sono note tanto quanto i loro colleghi maschi. Questione di minor talento? Non proprio. Messe da parte le eccezioni che confermano la regola – quali Frida Kahlo o Marina Abramović –, le artiste sono state pressoché dimenticate dalla critica e addirittura oscurate, a scapito dei loro lavori più che degni. Anche nomi tra i più conosciuti, come quello di Artemisia Gentileschi (una delle massime esponenti della scuola caravaggesca del Seicento), sono stati dissepolti dall’oblio solo in tempi recenti e, nel caso specifico, grazie a una fetta di critica femminile che l’ha eletta a eroina per come seppe reagire alla sua tragica vicenda di abusi.
Ma raramente si trova scritto sui libri scolastici il nome di Berthe Morisot, se non come modella prediletta di Édouard Manet, e moglie del fratello di lui, Eugène. Nonostante Berthe sia stata una delle interpreti più significative dell’Impressionismo, lottando tutta la vita contro i pregiudizi sessisti che attanagliavano il mondo artistico, sulla sua lapide non è inciso altro che “vedova Manet” e il suo certificato di morte reca la dicitura «senza professione» (vedi anche Professione: nessuna. Quando la storia dell’arte è scritta dagli uomini).
Più estranei per molti di noi sono i nomi di Mary Cassatt, che pure fu promotrice della prima mostra impressionista oltreoceano, di Benedetta Cappa Marinetti e di Nanda Vigo, entrambe messe in ombra dai loro celeberrimi compagni (Filippo Tommaso Marinetti nel primo caso e Piero Manzoni nel secondo). E come non citare la straziante vicenda di Camille Claudel? Capace scultrice francese ricordata prevalentemente solo come l’amante di Auguste Rodin, venne rinchiusa in manicomio dalla famiglia a causa della sua “folle” vocazione artistica (leggi anche La sottrazione della bellezza). E ancora, è ignoto quanto notevole l’apporto culturale di Properzia de’ Rossi: l’artista bolognese eseguì – tra le altre cose – un bassorilievo per la basilica di San Petronio a Bologna e la sua abilità venne citata perfino da Giorgio Vasari nelle sue Vite.
Poco conosciuta è anche Irene da Spilimbergo, allieva favorita dal Tiziano, pittrice e poetessa, i cui lavori furono tanto poco considerati dalla critica posteriore, che ai giorni nostri non ne è giunta traccia. Andrebbe rivalutata pure l’opera della cremonese Sofonisba Anguissola, una delle prime esponenti femminili della pittura europea che, seguita dalle colleghe Elisabetta Sirani, Rosalba Carriera e Angelika Kauffmann, rappresentò la corrente rinascimentale italiana al femminile. Andando avanti nel tempo, negli anni Settanta venne accolta così freddamente l’estetica di Tamara de Lempicka negli Usa che la pittrice non espose più i suoi lavori in pubblico; eppure Autoritratto sulla Bugatti verde (1929) è oggi uno dei quadri più celebri della Storia dell’arte, divenuto emblema di un’epoca.
All’apparente invisibilità del talento femminile corrisponde invece una sovrabbondanza di donne raffigurate da uomini. Su questo aspetto si incentrò anche la campagna di qualche anno fa delle Guerrilla Girls: constatato che meno del 4% delle opere esposte al Met (Metropolitan museum of Art) di New York erano di artiste, mentre il 76% dei nudi rappresentava donne, si sono provocatoriamente chieste se per entrare nel museo una femmina dovesse per forza essere svestita. Nel ventunesimo secolo è forse arrivato il momento, per chi lavora nel settore, di riscoprire le firme femminili accantonate nel corso dei secoli e rivalutarle con occhio scevro da pregiudizi di genere.
Le immagini: Berthe Morisot, Young Woman Watering a Shrub (1883, collezione privata); Tamara de Lempicka, Autoritratto sulla Bugatti verde (1929, collezione privata); Camille Claudel, Sakountala (nota anche come L’abandon, bronzo, 1886-1905).
Sara Spimpolo
(LucidaMente, anno XIII, n. 155, novembre 2018)