Desmond Morris, nel suo La scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale uomo (Bompiani), afferma che originariamente la comunicazione, in quanto manifestazione del discorso, si sviluppò dalla necessità d’uno scambio collaborativo delle informazioni. Ben presto, però, acquisì per noi altre funzioni, e il modo d’esprimersi diede al discorso un nuovo valore, migliori possibilità di fornire “informazioni più appropriate e sensibili”. Oggi gli sviluppi del marketing nella sfera della comunicazione hanno apportato, ben al di là del solo agire sui contenuti, una nuova rilevante trasformazione.
All’inizio fu la notizia – All’inizio ci fu semplicemente bisogno di scambiarsi news values, in sostanza “eventi notiziabili” che avessero sufficiente importanza per essere comunicati. Presto però, arrivò il palinsesto e al repertorio di segni dell’informazione s’aggiunse la stravagante serie di strategie remotivanti care alla pubblicità. C’è stato così bisogno d’affermare che a volte, i riferimenti a fatti e persone possono essere frutto di pura fantasia, casuali, collocando perciò lo spettatore a una certa distanza percettiva dai fatti narrati, per non fargli confondere la realtà con la fiction. La prima questione che si pone a questo punto all’industria delle comunicazioni è chi stabilisca questa distanza e in che modo. Per affrontarla farò un furto ad arte, nel senso calviniano. Partirò da una puntata di The Simpson di Matt Groening (Italia 1, 22 giugno 2006). Dall’immagine della comunicazione di massa prodotta da un autore contemporaneo. Tutto inizia con Homer accusato di molestie sessuali da una studentessa universitaria. I media s’appropriano della notizia e la manipolano per amplificarne l’impatto (il termine “cucire” è più attuale). In un certo senso s’impadroniscono della sua vita, riadattandola agli obiettivi dell’impresa di comunicazione in questione, e Homer si scontra con un altro mondo in grado d’adulterare i fatti al punto di far credere vero ciò che non lo è.
Un nuovo immaginario collettivo – Le comunicazioni di massa danno senso al mondo. Rappresentano un enorme generatore d’immagini collettive. Perciò Homer partecipa a uno show convinto che riuscirà a scagionarlo dall’accusa infamante. Le cose vanno diversamente, però. I media non sono proprio quello che egli crede, piuttosto ciò che gli fanno credere che sia. Si ritrova immerso in un limbo comunicativo, un mondo di professionisti che costruisce la realtà per finzione narrativa, presentando i fatti secondo forme discorsive adeguate a fare audience, a colpire un target, attenendosi a un discorso di marketing che privilegi i comportamenti di consumo delle realtà sociali e culturali dei luoghi d’impatto. La comunicazione assume un nuovo linguaggio, fatto d’analisi, tecniche e strategie di mercato. Spiegare il fenomeno comunicativo significa entrare nel lessico del marketing e in una logica che ricicla le più diverse discipline. “La prima regola nella formulazione dei messaggi” è identificare i punti chiave d’ogni comunicazione. Chi, cosa, come, perché lo comunica, a chi, con quale mezzo, con quale risultato. Ebbene, il risultato. Per raggiungerlo si analizza come funziona la comunicazione. Se la si vuole sfruttare, bisognerà capire a che serve. Comunicare è prima di tutto un’attività relazionale e funzionale a un obiettivo. Non solo comunichiamo in modo strumentale per compiere o conseguire qualcosa, ma “per fare in modo che qualcuno si comporti in una determinata maniera (funzione di controllo), per scoprire o spiegare qualcosa (funzione informativa), per esprimere i propri sentimenti o imporsi in modo particolare (funzione espressiva), per stare in compagnia (funzione di contatto sociale), per sviscerare un problema, dare sollievo ad una preoccupazione (funzione di alleviamento dall’ansia), per provare interesse per una data situazione (funzione di stimolazione), perché la situazione lo richiede (funzione legata al ruolo)”.
Tendenze e percezione di massa – E così la comunicazione trova sempre i modi per trionfare. Homer, l’uomo ritratto dai media di tutta la città come insaziabile e bavosa “bestia sessuale”, è liberato dalla disdicevole accusa di “papà mano-bassa” da un maniaco vero che filma a livello amatoriale coppie e scandali nascosti nei vizi delle persone. Sottolineo l'”amatoriale”, da amatore, non-professionistico, dilettantistico, perché, da una parte, c’è la componente di forte passionalità implicita nel termine, e tutta una serie di dinamiche come l’innamoramento, la seduzione, e anche la perversione come massimo negativo nella scala della sfera amorosa. Dall’altro lato, quello dilettantistico, entra in scena un’azione fatta per puro piacere personale, senza professionalità. La tv di chi è “del mestiere” s’adegua a uno a cui manca totalmente la predisposizione alla notizia. Uno affetto da una distorta tendenza che al contrario, nella degenerazione, registra e comunica il fatto vero. La televisione amatoriale, la “reality tv”, è la nuova eroina della verità di cronaca. Homer riacquista la sua decenza sociale. S’allinea ai media e agli indici d’ascolto ottenuti denunciando il pervertito vero e, se i filmati lo incriminano, l’annullano socialmente, non ha importanza. Quando tocca all’altro ci si schiera con la percezione di massa che i media mostrano, rimotivando gli eventi col presupposto di rialzare lo share. La verità è ciò che non ci colpisce direttamente. L’esperienza produce nel protagonista un solo risultato. Homer abbraccia il televisore, lo bacia e dispiaciuto gli dice: “Non litighiamo mai più”. Cos’è la comunicazione di massa nella percezione culturale? Mamma? Fidanzata? Moglie? Industria che con le sue ferree regole di mercato e il suo linguaggio contribuisce profondamente alla costruzione del mondo? Per Homer, che, da americano-tipo, passa ore e ore davanti la tv, mangiucchiando un po’ di tutto e sbavando sul divano, è la salvezza, una porta per rientrare nel reale.
L’importanza di sapere chi (vogliono che) siamo – Coloro che si occupano di comunicazione, d’altronde, sanno che, quando compriamo il pane o il biglietto del tram, paghiamo l’affitto, il dentista o chiacchieriamo con qualcuno di segno opposto, siamo esempi di comunicazione finalizzata al soddisfacimento delle nostre esigenze elementari. Sanno che viviamo in una società con una divisione del lavoro specializzata, e che la comunicazione deve adeguarsi al nuovo marketing individualizzato, one-to-one. Per il cliente, prodotto e comunicazione del prodotto “devono essere percepiti il più possibile “mirati” su di lui e studiati in funzione delle sue esigenze”. S’usano nel testo le virgolette alte, il termine “mirati” deve essere ben chiaro. Bisogna puntare ai bisogni con armi di precisione e, naturalmente, crearli. Perciò ci studiano. Per sapere che è possibile usare la comunicazione per controllare gli altri, così come un genitore, un commerciante o un politico possono servirsene “per cercare di stabilire un controllo su altre persone”. Il controllo può portare al conseguimento d’un fine e tale funzione è importante più dei bisogni. Entrano nella nostra coscienza. Nelle emozioni profonde. In ciò che per noi è spiacevole. Sanno che queste situazioni le risolviamo affidandoci all’altro, chiedendo cosa ne pensa, e che “allo stesso modo, molti dei nostri giudizi dipendono, almeno in parte, dalle opinioni trasmesseci da altri”. Sanno che “l’isolamento sociale produce spesso effetti devastanti”, che comunicazione è anche contatto e ricerca dell’altro, che se un “individuo” – così ci chiamano – è in una situazione d’ansia, tende a relazionarsi per alleviare l’agitazione. Sanno pure che se sono in un bar affollato di sera o sto andando a una festa sono un esempio di comunicazione finalizzata a produrre stimoli da interazione. La comunicazione è per costoro essenzialmente un obiettivo: “Svolgere quanto ci si aspetta da noi”. Così analisti e illustri specialisti con le loro scale dei bisogni scoprono i fattori che stimolano l’acquisto e come garantirci sempre la giusta “spinta motivazionale”. Tutto diventa oriented e tutti ci ritroviamo consumer. In sostanza, individui che rientrano in un panel, uno schema che permette di rilevare dati significativi sui modi di rapportarci al nostro habitat.
Benvenuti nell’era dei Clusters – Siamo quindi “gruppi di persone o cose dello stesso tipo”. Clusters. Individui “con poche responsabilità, condizionati solo dal bisogno di appartenere ad un gruppo e confrontarsi con esso”, giovani e spensierati studenti della classe media chiamati liceali. Siamo delfini, definiti con poetica espressione “gioventù degli anni dorati”, e disponiamo di denaro, cultura ed energie per mettere a frutto sia l’una che l’altra. Siamo, ahimé, anche spettatori. Giovani maschi dei piccoli centri dove la vita è soprattutto lavoro e gli scarsi strumenti culturali che abbiamo ci fanno attori passivi della trasformazione sociale e “facili prede dei più effimeri miti consumistici”. E pure arrivati. Abbiamo già vinto. Lavoriamo, viaggiamo, leggiamo, ci teniamo informati, partecipiamo alla vita in maniera piena e attiva. Quante cose siamo noi umani? Tantissime. Ne nascono sempre di nuove. Impegnati, organizzatori, esecutori, colleghe, commesse, raffinate, massaie, avventati, accorti, appartate, siamo tutto questo e saremo altro ancora. La psicografia ci fotografa la personalità. Non mente. Attenzione dunque, tocca ripeterlo, tutto questo potrebbe non essere vero ma è frutto d’un dizionario enciclopedico specifico. Un’opera che raccoglie, come dichiara uno dei dizionari che invece solitamente adoperiamo, “in ordine alfabetico, parole e locuzioni di una lingua”. E’ lessico, pertanto, modo d’esprimersi d’un ambiente e dei suoi parlanti. Voci che contribuiscono a costruire un mondo in cui scopriamo, attraverso l’advertising (esposizione alle tecniche pubblicitarie), che siamo usati in testing che misurano i mutamenti delle nostre aspettative e dei nostri comportamenti d’acquisto, nient’altro che “variabili di comunicazione”, monitorati persino nei nostri comportamenti non programmati. Vogliono sapere quello che non sappiamo neppure noi di sapere quando facciamo un acquisto d’impulso, qual è lo stimolo che abbiamo percepito nell’attimo in cui lo abbiamo fatto. In questa tipologia discorsiva il mondo è ad hoc survey, mirato a un particolare obiettivo. La nostra realtà dei fatti accidental sampling, un campione casuale. Come ogni buon dizionario è volto a produrre un linguaggio che esce fuori dal mondo scritto per operare a pieno titolo nella realtà, contribuendo a ri-significarla. Il mondo scritto, come ricorda Italo Calvino, “è un mondo fatto di parole, usate secondo le tecniche e le strategie proprie del linguaggio, secondo gli speciali sistemi in cui si organizzano i significati e le relazioni tra i significati”. E’ ora di iniziare a chiedersi che senso dell’approccio all’esperienza trasmette questo tipo di organizzazione dei significati, se la vita va al di là d’una clusters analysis, dell’individuazione di gruppi omogenei e di criteri prefissati. Dentro questo nuovo mondo, l’articolo 3 del Codice di etica professionale delle Relazioni pubbliche e il suo rinvio al rispetto dei diritti umani resta “sottovoce”.
Riferimenti bibliografici
Italo Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, Mondadori;
Centro Studi Comunicazione Cogno e Associati, Dizionario Enciclopedico della Comunicazione d’Impresa, www.cognoassociati.it, aggiornato al 16 ottobre 2006;
Tullio De Mauro, Dizionario Italiano, Mondadori;
Pietro Favari, Televisione, Zanichelli;
A. J. Greimas – J. Courtés, Dizionario ragionato di teoria del linguaggio, La Casa Usher;
Desmond Morris, La scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale uomo, Bompiani;
Bernhard Streck (a cura di), Dizionario di Etnologia, Sugarco.
L’immagine: la futura invenzione della televisione, immaginata nel 1883 dal disegnatore francese Albert Robida (1848-1926).
Andrea Spartaco
(LucidaMente, anno II, n. 17, maggio 2007)