Qualche riflessione da parte di chi frequentava la biblioteca devastata su studenti buoni, studenti cattivi e didattica vecchia, con docenti a volte un po’ sadici (nell’ignavia di tutti)
Si è detto – e speculato – tanto, sugli eventi che hanno scosso l’Università di Bologna in quest’ultimo periodo. Da frequentatrice abituale della Biblioteca di Discipline umanistiche devastata dagli scontri studenti-polizia, ho sentito il bisogno di esprimermi sull’accaduto, che solleva questioni che prescindono i tornelli.
Per ricapitolare brevemente: sono stati montati dei tornelli all’entrata della biblioteca universitaria in via Zamboni 36. Per accedere, serve il badge, il tesserino di riconoscimento degli studenti: per le autorità si tratta di norme di sicurezza, per gli studenti dei collettivi si tratta di un’odiosa limitazione. Vengono raccolte delle firme, 600 per la precisione, poi si passa all’azione: i tornelli vengono smontati e i loro cadaveri lasciati davanti all’ufficio del rettore. La biblioteca viene chiusa, gli studenti la occupano, la celere sfonda. Da quando ho iniziato l’università a Bologna, circa quattro anni fa, ho sempre frequentato il 36. Era vicino casa mia, poi aveva la macchinetta del caffè, bene di prima necessità che dovrebbe essere normato dalla Carta dei diritti, e che al 38 invece manca. Per me, poi, rappresentava l’emblema dell’Alma Mater.
La compenetrazione che esiste a Bologna fra città e studenti è dal mio punto di vista un qualcosa di unico, che va preservato. Per questo l’ho scelta, ancor prima di optare per una determinata facoltà. Certo, l’ateneo felsineo non è immune dai limiti, tanti, che caratterizzano l’attuale sistema universitario italiano. A mio parere, il problema più urgente del nostro sistema universitario non sono le tasse, certo sproporzionate rispetto ai servizi ricevuti. Nemmeno i baroni e il lassismo sono in cima alla lista. Il problema più urgente, ciò che veramente più di ogni altra cosa condiziona il futuro degli studenti, è la più totale alienazione dal presente. Specialmente nel Dipartimento di Lettere e Filosofia aleggia per le aule la puzza di morto.
Usciremo che saremo già vecchi, impariamo solo fino a quasi raggiungere la realtà, a vederla da lontano. I libri su cui si studia sono vecchi, così com’è vecchio il metodo di verifica delle conoscenze, assolutamente non meritocratico, né tantomeno oggettivo. Inoltre, non siamo in grado di porre una domanda, veniamo scoraggiati. Spesso ho visto professori rivolgersi ironicamente a un ragazzo, esponendolo allo scherno popolare dei suoi “colleghi”. Come in una gogna medievale, i gretti tirano i pomodori all’esposto, felici che non sia il proprio turno, e non si soffermano a riflettere sull’ingiustizia venata di sadismo. Le domande fanno perdere tempo, non siamo lì per capire, ma per assorbire. Tanto che molte facoltà non hanno nemmeno l’obbligo di frequenza, e allora si riduce tutto a leggere tre quattro cinque libri, mille duemila tremila pagine, fare schemi, diagrammi, riassunti, ripetere, portare a casa un voto e dimenticare.
Mettere un tornello al 36 è mettere in chiaro per l’ennesima volta quanto sia necessaria l’alienazione degli studenti. Chiudere il degrado fuori dalla porta di una biblioteca non lo farà uscire. Sconfiggerlo non interessa al rettore Francesco Ubertini, non interessa al questore Ignazio Coccia, non interessa al sindaco Virginio Merola. Basta nasconderlo e fare finta di niente. Non interessa neanche agli studenti stessi. Gli stessi che ridacchiano a una domanda mal posta, ora si alleano con rettore, questore e sindaco, contro loro stessi. Organizzano petizioni online e turni di pulizia – rigorosamente il lunedì dopo, però, perché il weekend è sacrosanto – per la biblioteca ferita, ma non spendono una parola contro l’atto forzoso del rettore di aprire le porte dell’università, precluse da 40 anni alle forze dell’ordine, e di mettere alla berlina degli studenti disarmati.
Ancora una volta ridacchiano e tirano pomodori a chi si espone, si alleano con chi si disinteressa di loro. Non si sentono rappresentati dagli atti violenti dei collettivi, ma dalle percosse della polizia sì. A loro e per loro sono dedicate queste riflessioni. Vorrei che vi ricordaste che l’università è di tutti, non vostra perché la pagate. Anzi, non dovreste proprio pagarla, quindi ribellatevi, invece di rivendicare i soldi spesi. E, ancora, tenete ben presente che non è per la nostra sicurezza che ci chiudono dentro. E che il molestatore sessuale, che tanto piace citare a tutti, pare fosse anch’egli uno studente dotato di badge. Che lo spaccio non è qualcosa di fronte alla quale storcere il naso e a cui chiedere di andare un po’ più in là, bensì un problema da risolvere. Ma, soprattutto, che la conoscenza imprigionata è sterile.
Ludovica Merletti
(LucidaMente, anno XII, n. 135, marzo 2017)
Brava, Lula.