Quando forme di precariato e sfruttamento vengono addolcite nel racconto dei programmi televisivi
Cos’hanno in comune un giardiniere e una rockstar? Saltando a gambe unite la battuta sul rapporto idilliaco con l’erba, possiamo affermare con assoluta certezza che si tratta di due professioni legate al soddisfacimento di una richiesta del mercato. Un po’ vago. Saltiamo con altrettanto atletismo anche la battuta sul ricorso alla chimica per il miglioramento delle prestazioni e cerchiamo di cascare più o meno comodamente sul divano. Accendendo la televisione scopriremo, con una buona dose di stupore, che sia il giardiniere sia la rockstar hanno un pubblico.
Un pubblico che si appassiona, che fa il tifo, che si strugge, s’innamora e sogna di potere – un giorno – immedesimarsi in loro. Ora, per la rockstar non c’è bisogno di approfondimenti culturali e contorsioni socioantropologiche. È lecito chiedersi, però, come sia stato possibile che si generasse un seguito sognante per una professione tanto indubbiamente nobile quanto indubbiamente prosaica come quella del giardiniere. Prima di tutto, è necessario garantire una copertura più o meno ampia al soggetto che si vuole plasmare, compito facilmente realizzabile da un programma televisivo e da una pagina Facebook. Una volta piazzato al centro di uno schermo, il personaggio deve diventare protagonista di una storia: la cornice del talent show fornisce il contesto in cui potrà esprimersi; i giudici o gli avversari sono antagonisti che prima o poi dimostreranno di avere un cuore tenero; le prove da superare scandiscono la narrazione e il premio in palio allieta il finale. A questa macrostruttura narrativa s’intrecciano accenni di introspezione psicologica quasi sempre legati al dramma della resilienza: la maggior parte dei personaggi prima o poi reciterà la parte del leone ferito che vuole tornare a ruggire. Un luogo comune da cui tutti proveniamo.
E tutti siamo potenzialmente rappresentati: dal concorrente giovane con gli occhi luminosi proiettati sul futuro o dalla casalinga in cerca di riscatto, oppure dal cinquantenne a caccia di emozioni forti. Se non ti rivedi in nessuno degli sfidanti di MasterChef, probabilmente vuol dire che non sei il benvenuto sul pianeta Terra. Mi piace pensare che questa massima ci sia stata suggerita in sogno dallo scrittore e autore televisivo Carlo Freccero. E il target preso di mira è estremamente più esteso di quello finora descritto. Se i cantanti hanno sempre avuto il loro spazio dal datato Primo applauso con Enzo Tortora e con il primo applausometro al più attuale Amici di Maria De Filippi, con lo straordinario successo del sopracitato programma per aspiranti cuochi la schiera dei talent è cresciuta esponenzialmente.
Durante la più proficua delle sessioni di zapping scopriremo: Ceramicando su Sky Uno dedicato ai ceramisti, Hair e Bake Off su Real Time, rispettivamente per parrucchieri e pasticcieri, Ink master su Dmax per i tatuatori. Più vicino alla formula del reality è Giardinieri in affitto su La7, mentre perfettamente calzante con il dating show è Il contadino cerca moglie su Fox Life. Così accontentiamo anche il bracciante lucano e il pastore abruzzese. Ne abbiamo dimenticati alcuni e per farci perdonare cavalchiamo la proposta apparsa sul blog Dissapore, auspicando anche noi un futuro talent sui camerieri. Per tutti coloro che non sono dotati di un’attitudine particolare, ma semplicemente frustrati dalle dinamiche aziendali, negli ultimi tre anni Rai 2 ha dedicato una prima serata all’importato Un boss in incognito: in sostanza, un direttore d’azienda indossa un paio di quegli occhiali con naso e baffi incorporati e – sotto mentite spoglie – passa qualche giorno con uno dei suoi dipendenti, ne ascolta i problemi legati a caro prezzi e figli influenzati e poi premia o punisce in base al livello di tracotanza dell’ignaro malcapitato. La decisione del boss è insindacabile e comunque eticamente impeccabile. Il sottotesto che affiora a più riprese durante una puntata è: a volte si soffre, ma il lavoro è un posto meraviglioso.
Il che sarebbe anche in parte vero, ma reso fin troppo accattivante da quel tipo di telecamera che riprende solo i caratteri cubitali dello slogan che vuole comunicare. Le parole chiave sono tre: passione, sacrificio e soddisfazioni. La formula che ne ricaviamo mostra che moltiplicando all’infinito le prime due costanti si ottiene la terza variabile. Fuori dalla metafora – sicuramente approssimativa – si noterà che altre telecamere propongono una visione diversa del lavoro. Quella di Ken Loach, per esempio, nel film drammatico Io, Daniel Blake (2016), racconta la storia di un quasi sessantenne che, dopo un attacco cardiaco, perde il posto e, ingannato dalla burocrazia, non ottiene il diritto al sussidio. Correggiamo la precedente formula depennando passione e soddisfazioni.
Un racconto molto simile ad alcuni casi di licenziamenti assurdi o di sfide titaniche per uno stipendio: cinquemila aspiranti, un solo posto di lavoro, neomamme allattano in corridoio. Bel format. Insomma, il divario tra aspettative e realtà ora è mastodontico. Usando un’immagine del poeta latino Lucrezio, potremmo eufemisticamente affermare che è stato orlato di miele il bicchiere contenente la medicina amara. E ci sta: chi non ha mai partecipato a un talent riuscirà ad accettarlo, con qualche imprecazione in più. Chi vi ha preso parte, invece, tornando alla realtà si ritrova una netta escursione emotiva da metabolizzare: davanti alle telecamere si è abituato a parlare dell’amore per il suo lavoro, a sottoporre il suo estro artistico al cinismo dei giudici, ad abbassare lo sguardo prima di sorridere sprezzante, a ravviarsi i capelli dopo aver scosso la testa.
Ora ha solo clienti che vanno di fretta,non guardano in faccia e magari ricordano più o meno il suo nome e quella volta in cui ha pianto per aver perso una sfida. La vita di un reduce non è mai facile e il quasi-vip, che dai riflettori sul posto di lavoro torna all’opacità quotidiana, non è da meno: pensiamo a un pasticciere che, dopo aver ringraziato il suo fornitore, assaggia la crema, si gira verso la quarta parete e ringrazia tutti quelli che l’hanno votato.
Le immagini: la celebre foto della pausa pranzo in cielo, sospesa sopra New York, attribuita al fotografo e sociologo statunitense Lewis Hine; tre giudici di un talentshow; un frame dal film Io, Daniel Blake.
Orazio Francesco Lella
(LucidaMente, anno XIII, n. 146, febbraio 2018)