Una musicalissima orditura di analogie scintillanti e palpitanti, dai moti talvolta centripetati, altre volte circolari, altre volte ancora geometrici: vibrazioni foniche filigranate elegiacamente, con ritmi danzanti e soffici. Così si può sintetizzare Tintinnio di farfalle (pp. 62, € 9,00) di Arianna Agnoletto, seconda uscita nella collana di poesia Le costellazioni sonore delle Edizioni di LucidaMente. Ed ecco come, col suo saggio Alla fonte della parola: le sintetiche immagini di Arianna Agnoletto, l’introduce Marco Gatto.
La ricerca della sintesi che tenga unite le molteplici tessere che il mondo odierno ci offre non costituiva un’angustia degli antichi. Per i poeti latini – pensiamo agli elegiaci, ma per certi aspetti anche alla poesia epica – la riuscita letteraria non era collegata all’unitarietà del testo, bensì la sua assenza andava a beneficio di una visualizzazione composita dello stesso, sfilacciato ma di grande intensità emotiva o filosofica.
Di contro, l’ansia per una tela che ricostruisca una totalità il più possibile organica è, insieme ad altri elementi, una delle cifre della modernità. Con essa, la consapevolezza di una frammentarietà che non permette quella sintesi caratteristica del mondo classico.
L’autore, il personaggio-uomo, sia nella prosa che nella poesia, è consapevole, di fronte al moderno, di una perdita. La sua strada è quella di uno sperato ritorno alle origini, all’autenticità. Secondo György Lukács (Teoria del romanzo [1920]), l’eroe del romanzo moderno “perviene infine a una condizione di rassegnata solitudine”, in cui è viva “l’intuizione visiva della discrepanza tra interiorità e mondo”. L’uomo sente profondo e lacerante il distacco tra il suo sé e quello che lo circonda, difficilmente rappresentabile a partire dalla sua soggettività.
E nella poesia? La ricerca della fonte, della scaturigine che vorticosamente scompare nel vuoto dell’attesa, si avvale delle potenzialità espansive, ma pure digressive, della parola. Ma, venuto meno un codice linguistico comune, capace di rappresentare senza mezzi termini quella vicinanza (quasi una coincidenza) fra uomo e natura che già Leopardi intuiva essere alla base del vivere e del poetare degli antichi, il poeta si trova di fronte alla spietata macchina della finzione. Come poter rappresentare l’ambivalenza prospettica del caos moderno senza rinunciare a una poesia (onesta, nel senso sabiano) delle cose? La sfida è un’impresa titanica.
Oggi, nell’epoca che molti dicono della postmodernità, la poesia sopravvive a se stessa, talvolta ridotta a gioco elitario, o a pratica da laboratorio. Manca un referente sociale, per cui i poeti possono liberamente sperimentare e giocare senza compromessi. Si parla di condizione postuma della letteratura, di fine della civiltà della parola.
Con la convinzione tutta adorniana che ogni prodotto artistico lavori non solo per se stesso, ma concorra pure alla modificazione dell’Arte, e che dunque ogni poesia, ogni silloge, modifichi, anche se transeunte, il concetto di Poesia, possiamo chiederci come predisporci alla lettura di questa raccolta di Arianna Agnoletto. Ella offre al lettore una serie velocissima (la leggerezza – parametro che Italo Calvino eleggeva, nella sue Lezioni americane, a qualità imprescindibile per la letteratura del terzo millennio) di frammenti visionari, talora babelici, che hanno la potenza di una fiamma evanescente, tendenti tutti a una possibilità di sintesi che rimane, tuttavia, ancorata alla quotidianità di un momento.
Lapidarie nelle loro fermezze e semplici nella loro sincerità, le poesie (verrebbe da dire gli haikai) della Agnoletto aspirano a un minimalismo in cui l’oggetto, l’attimo, la sensazione, il vortice espressivo immanente, vengano riportati sulla pagina come un click fotografico, immortalati nella loro fugace apparizione. In tal senso i brevi frammenti poetici diventano icona di asciuttezza e compattezza, seppure inseriti in un fluire di immagini che ne denuncia la loro disomogeneità di fronte al mondo rappresentabile. Sono momenti di pathos che si spengono subito, nella loro parzialità e nel loro sforzo immaginifico.
A chi scrive versi non resta che essere strumento e notaio di epifanie in cui sembra svelarsi per un attimo il senso del tutto (“riconosco / il tocco leggero / delle tue ali / …… / lo riconosco / ……”) e in cui si rivela, però, la condizione di impossibilità di azione. Non è un caso che invano cercheremmo in questa raccolta echi di una realtà sociale che invada i giorni e le ore della poesia: a contare è qui l’interiorità che sprigiona la sua illusoria domanda di chiarezza, scontrandosi inevitabilmente col diniego di una realtà che non si lascia rappresentare nel suo fluire.
Viene da sé, dunque, pensare, nel leggere le composizioni quasi sillabiche della Agnoletto, a una poesia dell’interiorità, dalla quale è possibile partire – nella sua qualità di documento – per riflettere sul reale e sulla condizione stessa del genere poetico.
In ciò è rilevante, per riprendere il succitato discorso, la ricerca della fonte, del momento primo che sintetizzi, con poche parole, l’attimo rivelatore. Le parole che si dispongono solitarie, a costituire di per sé un verso intero, o addirittura l’uso dei puntini sospensivi (che paiono quasi metonimia di una parola assente), mirano all’assoluto: ungarettianamente, prima e dopo della parola non c’è nulla, c’è la sua intensità destinata comunque a morire, la sua gridata speranza di saper racchiudere un senso estremo, in cui vita e morte quasi coincidono. Un esempio: “la vita / s’inarca / al peso / delle parole / che andavano / dette”.
La lingua della Agnoletto, in virtù dell’immanenza dei momenti rappresentati, mira alla semplicità, senza amplificare ulteriormente il tono icastico dei componimenti. Pertanto, viene raggiunto, in molti casi, un equilibro fra materialità della parola ed epifania visionaria, grazie al quale il lettore può gustare, tutto d’un fiato, questo piacevole e agile libretto.
L’immagine: in quarta di copertina della raccolta poetica di Arianna Agnoletto (progetto grafico di Matteo Scanavini): Tintinnio di farfalle (acrilico su tela) di Elisa Sasso.
Marco Gatto
(LucidaMente, anno II, n. 4 EXTRA, supplemento al n. 14, 14 febbraio 2007)