Il gruppo bolognese dei Junkfood gioca col proprio nome: in realtà, il loro album “Transience”(trovarobato) è un bel disco jazz-rock, dagli esiti spesso sorprendenti
In principio erano le miglia di Davis, il bollettino meteo, il re cremisi e la soffice macchina, magari in Oregon. E in Italia si andava in una piazza cercando di individuare il perigeo. Al di là dei giochi di parole, c’era il jazz-rock coi grandissimi Miles Davis, Weather Report, King Crimson, Soft Machine o gli Oregon di Ralph Towner… E, nel nostro piccolo, ci si difendeva bene con gli Agorà e coi Perigeo. Solo per citare alcuni gruppi. All’interno di una (forse) irripetibile stagione musicale (vedi alcune considerazioni ne L’“antica” arte del videoclip).
È encomiabile che oggi la nobile e duratura esperienza musicale jazz-rock venga ripresa da quattro giovani musicisti (tre nati nel 1984 e uno nel 1976), incontratisi sui banchi di scuola del Conservatorio di musica di Bologna. Sono i Junkfood, già vincitori del Faenza Music Award conferitogli dal Mei, Meeting degli indipendenti. Nomi e strumenti: Paolo Raineri (tromba e flicorno), Michelangelo Vanni (chitarra elettrica), Simone Calderoni (basso elettrico), Simone Cavina (percussioni). Il loro album Transience (trovarobato), tra acustica ed elettronica, è un originale e riuscito accostamento di dieci brani, che si sostanziano di sonorità metropolitane, arie free-jazz, suoni sincopati, atmosfere che si aprono a orizzonti maestosi. A volte persino con spunti psichedelici.
Come si diceva, dieci sono i brani inclusi nell’album. Inizio lento e disteso in Exodus, con la tromba di Raineri che si allarga e si distende sempre più maestosamente, fino a quando la melodia viene ripresa da Vanni, Calderoni e Cavina per sfumare infine in tonalità free-jazz. Aging hippie liberal douche è più ritmata, con approcci alla Soft Machine. Eccentriche cacofonie da banda musicale caratterizzano l’incipit di Small time murderer. Singolari gli accordi di Wrap you in plastic, con impressionistici rispecchiamenti di frenesie metropolitane. Romanticismo ed enigmaticità – ovviamente – in Ambigous dancers.
Ironica la descrizione dell’inguaribile fumatrice (Mrs. smokes-too-much). Pensoso e problematico il Rehabilitation program. Puntillista il brano successivo, Hikikomori. In Head towards enemy perfetta l’alternanza di drums e suoni acustici, con esiti oscuri e sofisticati, alla King Crimson. Il disco si conclude splendidamente col decimo brano, forse il più bello, I’m god’s lonely man, entro il quale tutta l’energia dei Junkfood perviene a un ordine pacato e perfetto, quasi da new age. Explicit. Lunga vita ai musicisti.
Vedi anche: L’anti-jazz dei Junkfood.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno VII, n. 83, novembre 2012)