Nel saggio “Il sultanato di Erdoğan” di Francesco Fravolini (Villaggio Maori Edizioni) emerge con chiarezza la situazione politica e sociale di uno Stato sempre più autoritario
Nella storia della Turchia si sono succeduti diversi conflitti, quasi fossero eventi tipici della vita quotidiana, e la loro influenza negativa si riflette oggi sulla crescita politica, sociale ed economica dello Stato. A queste vicende, come al recente golpe avvenuto nel luglio 2016 (vedi Colpo di Stato in Turchia: le ragioni di un fallimento), sono seguiti frequenti episodi di negazione dei diritti civili.
Si tratta di uno dei fattori principali che hanno portato la popolazione a subire un forte arretramento culturale. Nel recente libro Il sultanato di Erdoğan. Cosa resta della Turchia dopo il golpe e la svolta presidenzialista (Villaggio Maori Edizioni, pp. 100, € 13,50), di Francesco Fravolini, emerge con chiarezza la situazione politica e sociale della cittadinanza, che l’autore analizza mediante alcuni riferimenti alla storia del paese. Entriamo nel dettaglio. Le guerre azzerano lo sviluppo sociale, diminuendo la naturale crescita di una nazione; al contrario, gli Stati più pacifici tendono a vivere un’evoluzione costante. Le molteplici vicissitudini accadute nel tempo dimostrano la debolezza della Turchia, come illustrano, nel testo, le visioni del suo passato e del suo mondo contemporaneo. Il paese deve ormai affrontare le attuali sfide politiche ed economiche come se fosse una “nuova Turchia”.
Sotto la spietata dittatura del presidente Recep Tayyip Erdoğan (vedi La Turchia di Erdoğan, un anno per arrivare al “Sultanato”), non è semplice trovare un’interpretazione oggettiva di quanto accade. C’è un preoccupante silenzio-assenso, paradossale e raccapricciante: potremmo contare numerosi episodi inaccettabili, ma l’Unione europea sembra non assumere una posizione chiara nei confronti del regime. Si registrano soltanto alcuni commenti oppure al massimo mediocri critiche, che suonano però più come dichiarazioni isolate; è totalmente assente quel ruolo decisivo e determinato che dovrebbero assumere gli Stati europei.
Se vogliamo la pace negli “Stati Uniti d’Europa”, occorre agire tutti in quella direzione e non è pensabile lasciare nelle mani di pochi la gestione della stessa. Non dimentichiamoci che viviamo nel XXI secolo e che oggi gli equilibri politici e sociali, grazie anche a uno stravolgimento del paradigma economico, sono completamente saltati. È necessario ripensare al lavoro, all’economia, alla cultura, alla società in una nuova chiave, dove sia possibile dialogare tra popoli e valorizzare il massimo bene comune: la pace, appunto. Nel libro l’autore evidenzia la posizione strategica della Turchia, tra l’Asia e l’Europa, con la funzione storica sia di barriera sia di ponte tra i due continenti, trovandosi nel punto esatto dove convergono i Balcani, il Caucaso, il Medio Oriente e il Mediterraneo orientale. È uno dei paesi più grandi della regione per estensione e numero di abitanti e la sua superficie è maggiore di quella di ogni Stato europeo. Comprendendo la penisola dell’Asia Minore, la Turchia si estende a est nella zona montuosa che talvolta viene indicata come Altopiano armeno.
A causa della sua posizione geografica risente delle evidenti influenze sociali e culturali di porzioni di mondo in perenne conflitto: differenti visioni si incrociano, incidendo pesantemente sugli equilibri delle popolazioni. Nelle pagine del libro viene esaminata anche la questione curda che si inserisce nel dibattito sulla Turchia. Il delicato argomento è sul tavolo della diplomazia internazionale sin dagli inizi degli anni Venti, quando le potenze europee stabilirono i confini attuali dell’area mediorientale, proprio in conseguenza della caduta dell’Impero ottomano.
Dalla sua caduta è nata la Turchia e c’è da sottolineare che l’etnia curda, considerato il più ampio gruppo etnico-linguistico senza una propria entità statuale, è oggi divisa tra la Turchia, con 13 milioni di abitanti, il 20% del totale, l’Iran, con 5 milioni (l’8%) e l’Iraq, con 4 milioni (il 19%). A questi nuclei vanno aggiunte le piccole comunità presenti in Armenia, Georgia, Kazakistan e Libano, per una popolazione complessiva che supera i 36 milioni di persone (leggi anche Curdi in Turchia: discriminati e non solo e I kurdi in Turchia, un popolo privato dei diritti civili). Dopo i due conflitti mondiali, in tutta l’area sono apparsi sempre più di frequente numerosi movimenti, ciascuno dei quali con la propria rivendicazione: dalla richiesta di una consistente autonomia, all’istituzione di uno Stato unitario indipendente (come il Kurdistan, letteralmente “terra dei curdi”). L’Iraq, assieme alla Turchia, è il paese dove tale battaglia politica ha assunto i toni più violenti (vedi I “peshmerga”, guerrieri della libertà). La drammatica situazione coinvolge le nazioni limitrofe, rendendo complicato un intervento risolutivo. Il problema turco deriva proprio da questa enorme complessità maturata durante la sua storia, rispetto alla quale l’Europa sembra non voglia fare chiarezza.
La prolungata passività di un popolo può comprometterne il destino; è necessario allora porsi interrogativi per offrire prospettive di pace alle giovani generazioni e un futuro alternativo. Sono proprio i più piccoli a dover crescere in un clima sereno per garantire poi un giusto e opportuno cammino del progresso. Se non cambiano le filosofie sociali, diventa arduo pensare allo sviluppo di un paese che vuole affermarsi nel contesto mondiale (vedi Il cinico accordo Ue-Turchia sulla pelle dei profughi). Ecco l’ambiziosa scommessa del XXI secolo: se vuole diventare un’assoluta protagonista, la Turchia deve ripensare il proprio ruolo internazionale. Sarà un obiettivo raggiungibile?
Elena Giuntoli
(LucidaMente, anno XIII, n. 154, ottobre 2018)