Qualche riflessione sulla caduta del Regno delle due Sicilie e l’insorgenza della “questione meridionale” nell’Italia postunitaria
La ricorrenza del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia ha riaperto, in campo meridionalista, dolorose ferite non ancora rimarginate sulla sofferenza, lo sfruttamento, l’incomprensione dovute all’arrivo dei burocrati del Regno di Sardegna, incaricati di sovrintendere, tramite un sistema prefettizio alla francese, l’amministrazione delle nuove terre del Sud.
Annesse con discutibili plebisciti, esse vennero governate con macroscopici errori dovuti sia alla tracotanza dei nuovi amministratori, sia ai loro pregiudizi inveterati e persistenti e all’assoluta ignoranza di usi e costumi locali. La reazione a questo stato di cose, già all’indomani della scomparsa del Regno delle due Sicilie, prese il nome di “brigantaggio”, che oggi ci viene presentata, dal versante neoborbonico o meridionalista estremo, come la giusta e dovuta risposta dei contadini, legati mani e piedi alla causa dei Borbone, contro il conquistatore piemontese. Questa visione, però, glissa o soprassiede su un aspetto poco indagato, in verità, e cioè che i piemontesi giunsero nel Regno delle due Sicilie quale terzo incomodo in una situazione di esasperazione da parte del popolo minuto, causato da un rapporto tra potere centrale e potere periferico che metteva in evidenza uno squilibrio sociale insanabile: infatti, la distribuzione della ricchezza, che traeva origine in massima parte dalla produzione agricola, era iniquamente suddivisa fra un ristrettissimo numero di latifondisti. Essi erano per la maggior parte nobili, che affondavano la propria origine all’epoca di Carlo V o ancora più indietro nel tempo, garanti sicuri e inamovibili dello status quo (locale e nazionale).
Quando arrivarono i piemontesi, le premesse della rivolta erano già nell’aria, ma non contro i nuovi venuti, bensì contro i latifondisti, detentori del potere interno al Regno, i quali, fiutato il momento opportuno, fomentarono le masse incitandole a considerare i piemontesi il vero nemico da combattere. L’ignoranza e l’estrema povertà delle genti rurali fecero il resto. Infatti, già nell’autunno del 1860, a ridosso della proclamazione del Regno d’Italia, una violenta guerriglia scoppiò in tutto l’ex Regno delle due Sicilie, capitanata da ex braccianti, disertori, ex garibaldini. Decine di migliaia di ribelli si diedero alla macchia combattendo su due fronti ben determinati e, in questa fase, ben contraddistinti: da una parte, essi razziavano e depredavano i ricchi proprietari terrieri; dall’altra, combattevano l’esercito piemontese, il quale, completamente incapace di comprendere la reale natura di questa situazione, tentò di fronteggiarla solo sul piano militare.
A tutto ciò si aggiunse l’incapacità manifesta, da parte della Destra conservatrice al potere, di considerare la “questione meridionale” come un disagio sociale anziché un problema eminentemente militare o di ordine pubblico. Il governo centrale fu subito informato sulle condizioni precarie in cui vivevano i contadini: ciononostante favorì la vendita dei beni ecclesiastici e dei beni demaniali in favore dei grandi proprietari e della ricca borghesia. Quest’ultima, già sotto il regno dei Borbone, era continuamente in lotta per la gestione del potere: infatti, diventare sindaco, capitano della guardia nazionale oppure segretario comunale permetteva di ottenere il possesso della terra e di incrementare la “roba”. Di volta in volta, la borghesia meridionale appoggiò ora la fazione borbonica, ora la fazione sabauda, secondo le convenienze del momento, favorendo il brigantaggio e utilizzandolo come arma di pressione rivoltacontro gli avversari locali di sempre (e non verso i piemontesi, che furono “usati” a tale scopo).
Per non creare disillusioni o innescare false prospettive, è bene ricordare come fossero gli stessi possidenti meridionali e la stessa borghesia codina del Sud ad insistere affinché si ricorresse alla «persecuzione incessante» nei confronti dei briganti. Ciò provocò la reazione della politica italiana, attraverso la legge Pica (è bene ricordare che il suo promotore, Giuseppe Pica, era abruzzese) del 1863, che, dando mandato all’esercito di fucilare vecchi, donne e bambini, rappresentò «la prima pulizia etnica della modernità occidentale operata sulle popolazioni meridionali» (cfr. Stefania Maffeo, Migliaia di soldati borbonici deportati nei lager del Nord, in www.cronologia.leonardo.it/). Un genocidio mitigato soltanto dall’emigrazione forzata: «O briganti o emigranti». Un motto che ancora riecheggia nelle terre del Sud.
Il coinvolgimento diretto dei detentori del potere costituito (locale e nazionale) del Regno delle due Sicilie nel nuovo Regno d’Italia, la nascita, l’evoluzione e la morte del brigantaggio, la conseguente emigrazione, sono elementi che non vengono quasi mai sottolineati a sufficienza. Sia perché è troppo comodo, storicamente, rovesciare tutta la responsabilità sui «piemontesi conquistatori», sia perché, a voler studiare meglio questo fenomeno, si scoprirebbero cose che è meglio non scoprire (come la genesi del fenomeno mafioso). Per esempio, conoscere la ricetta dell’«elisir di lunga vita» di numerose famiglie nobili, le quali non sono state minimamente toccate dal fenomeno brigantescoe dal passaggio di potere dai Borbone ai Savoia. Per non parlare, poi, della capacità di altrettanti appartenenti alla ricca borghesia agraria,commerciale e industriale di rimanere esenti dal fenomeno dell’emigrazione, permettendo ai propri figli (grazie a un sistema elitariod’istruzione) di mantenere intatti i gangli del potere, mentre interi paesi dell’Italia meridionale si andavano spopolando.
Un fenomeno analogo si registrò, in seguito, durante il cosiddetto Regno del Sud, quando tra il 1943 e il 1945 tanti codini di infelice memoria smisero di indossare camicie nere e fez e abbracciarono la bandiera della democrazia, riponendo il «santo manganello» nell’armadio. Se la questione meridionale è divenuta tale, cioè un problema che l’Italia si sta portando dietro dal 1861 fino ai giorni nostri; se l’ex Regno delle due Sicilie fu spogliato dei beni e ridotto alla miseria; se le industrie esistenti furono chiuse o dirottate al Nord; se le terre meridionali italiane si trasformarono nel sottosviluppo nazionale di cui tutti sappiamo… una buona fetta di responsabilità bisognerà cercarla, dunque, anche in coloro che per secoli ebbero il controllo diretto e indiretto del potere locale. Le false vittime, cioè, della lotta al brigantaggio e della conseguente emigrazione, che per anni si sono sottratte a responsabilità ben precise, svicolando e foraggiando soltanto i propri interessi particolari.
(LucidaMente si è spesso occupata di Unità e “questione meridionale”: cfr. Così vicini (prima), così lontani (dopo); I “Fratelli d’Italia” secondo Pino Aprile; Brigantaggio ed emigrazione secondo Eugenio Bennato; Il dibattito sull’anniversario dell’unificazione nazionale; L’Unità? Uno specchio dell’Italia di ieri (e di oggi); Quando il Sud era più ricco del Nord; Perché i meridionali divennero Terroni; La strage rimossa del 14 agosto 1861; Unificazione od occupazione?; Ripensando il Risorgimento; Le grandi delusioni storiche: Sud e Risorgimento mancato).
Le immagini: stampa satirica del 1861 in cui si ritrae il cardinale Giacomo Antonelli insieme a un brigante e a un esponente dell’Antico regime; ritratto di Giuseppe Pica (1813-1887); mappa del Regno delle due Sicilie; copertina di Terroni di Pino Aprile.
Francesco Cento
(LM EXTRA n. 30, 16 settembre 2013, supplemento a LucidaMente, anno VIII, n. 93, settembre 2013)