Nel saggio “Una Cosa sola” (Mondadori) Nicola Gratteri e Antonio Nicaso svelano come la criminalità organizzata, sfruttando la debolezza delle istituzioni preposte a reprimerla, ricicli ingenti somme di denaro e le investa nell’economia legale
L’Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione nell’attività di contrasto (Europol) ha redatto nel 2024 un rapporto sulla criminalità organizzata, nel quale rivela che nel Vecchio continente operano ben 821 clan mafiosi con oltre 25.000 affiliati (vedi Rapporto Europol 2024: sono 821 le reti criminali attive nell’Unione europea). Un ruolo primario a livello internazionale è rivestito da Camorra, Cosa nostra e ’ndrangheta che hanno rappresentato il modello di riferimento per tante altre associazioni a delinquere.
L’economia neoliberista favorisce la malavita
Le bande criminali imperversano anche nei continenti extraeuropei, ma sono radicate soprattutto nelle seguenti nazioni: Brasile (Primeiro comando da capital, Comando vermelho), Cina (Triadi), Colombia (Clan del golfo), Giamaica (Yardies), Giappone (Yakuza), Marocco (Mocro maffia), Messico (Cartello del golfo, Cartello di Sinaloa), Nigeria (Black axe, Supreme eiye confraternity), Stati uniti (Cosa nostra, Mara salvatrucha), Venezuela (Tren de Aragua). In Sudamerica esiste addirittura un ampio territorio tra Argentina, Brasile e Paraguay – la Triple frontera – che è praticamente in mano alle gang latinoamericane!
La proliferazione a livello globale della malavita organizzata è favorita dall’economia neoliberista, come denunciano il magistrato Nicola Gratteri e lo storico Antonio Nicaso nel saggio Una Cosa sola. Come le mafie si sono integrate al potere (Mondadori, pp. 192, € 19,00). L’intento degli autori è quello di svelare «le trame complesse e spesso invisibili che collegano la criminalità mafiosa ai mercati finanziari, al mondo imprenditoriale e all’Internet sommerso».
L’origine e la funzione storica della mafia
La mafia siciliana nacque nel Primo Ottocento, quando l’aristocrazia fondiaria affidò a squadre armate (formate da campieri e gabellotti) il compito di vigilare le proprietà terriere e assoggettare i contadini. L’“onorata società”, pertanto, fu «funzionale all’ordine socioeconomico del latifondo», coadiuvando la polizia borbonica «nella tutela dell’ordine pubblico, ma anche nell’attività di spionaggio a danno dei patrioti».
I camorristi e i mafiosi, tuttavia, appoggiarono la Spedizione dei Mille (1860) e dopo l’unificazione nazionale fornirono sostegno elettorale a vari esponenti politici, contribuendo a mantenere lo status quo. Molti criminali, infatti, parteciparono alla repressione del brigantaggio e dei Fasci siciliani, il movimento socialista che – tra il 1889 e il 1894 – rivendicò l’affitto collettivo delle terre e la fine dell’«intermediazione parassitaria dei gabellotti, affittuari di vaste tenute agricole, spesso legati alla mafia». Il fascismo represse la manovalanza criminale, ma permise ai vertici della malavita organizzata d’inserirsi «nei gangli e nei quadri del potere».
La grande criminalità nell’Italia repubblicana
Nel Secondo dopoguerra la grande criminalità collaborò – tramite minacce e omicidi – al mantenimento dell’ordine economico-sociale e, con le stragi del 1992-93, assestò il colpo finale alla Prima repubblica (leggi pure il nostro 1992, l’“annus horribilis” che sconvolse l’Italia e mandò in crisi la Prima Repubblica). Essa è ormai radicata in quasi tutte le regioni italiane e tende a sostituire la violenza «con strategie di silenziosa infiltrazione e con azioni corruttive e intimidatorie».
La ’ndrangheta controlla il commercio degli stupefacenti e – secondo la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo – «ha consolidato la propria posizione di vertice nei circuiti del traffico globale», riciclando il denaro sporco in ampi settori dell’economia legale. Cosa nostra è meno visibile e sembra ritornata alle abitudini criminali (appalti, droga, estorsioni, ecc.) «che hanno preceduto il ventennio dei delitti eccellenti compiuti dai Corleonesi». La Camorra si muove bene «nel mondo delle criptovalute e degli investimenti nei fondi che acquistano crediti deteriorati», ma continua anche a terrorizzare la popolazione campana «con sparatorie e veloci scorribande in motorino».
L’imbelle classe dirigente del Belpaese
Molto potente è diventata anche la mafia pugliese, suddivisa in tre spezzoni che operano prevalentemente nelle province di Foggia (mafia garganica), Bari (camorra barese) e Lecce (Sacra corona unita). Ai clan italiani, tuttavia, si sono affiancati quelli stranieri, soprattutto africani e balcanici: sono assai operose, in particolare, sia le bande maghrebine che «si occupano di hashish e ecstasy», sia quelle albanesi che «dominano il traffico di cocaina».
La criminalità organizzata viene perseguita con scarso rigore dall’imbelle classe dirigente del Belpaese. Ciò dipende essenzialmente dall’enorme quantità di denaro contante a disposizione dei mafiosi che «fa gola a tanti». I clan nostrani, inoltre, sono difficili da smantellare perché «hanno sviluppato una rete di relazioni trasversali con il potere». Non è un caso, dunque, se «l’Italia sembra trovarsi in una fase critica nella lotta contro le mafie»: la loro forza, infatti, «è direttamente proporzionale alla debolezza della politica».
La potenza delle Triadi cinesi
Le Triadi cinesi – formate da «numerosi clan che condividono l’apparato simbolico e normativo» – vanno annoverate tra le associazioni criminali più potenti al mondo. Esse nacquero nel Seicento per restaurare gli imperatori Ming, che erano stati deposti nel 1644 dalla dinastia manciù dei Qing. La rivoluzione maoista (1949) costrinse i loro membri ad emigrare a Hong Kong e Taiwan, ma essi rientrarono in Cina grazie al nuovo corso politico intrapreso nel 1979 da Deng Xiaoping.
Le Triadi controllano «il mercato dei precursori chimici utilizzati per sintetizzare droghe illecite» come il fentanyl (un pericoloso oppioide) e le metamfetamine (stimolanti del sistema nervoso) [leggi Andrea Baiguera Altieri, Eroina sintetica: la morte di massa sta tornando]. Esse gestiscono, inoltre, «la caccia illegale e il traffico di fauna selvatica, i crimini informatici, le frodi sofisticate, le truffe, il traffico di esseri umani e l’uso di manodopera sottomessa». Il governo cinese, tuttavia, non sembra intenzionato a contrastarle seriamente e si limita a tenerne sotto controllo gli enormi profitti.
Il riciclaggio del denaro sporco
La grande criminalità è in grado di accumulare annualmente una ricchezza impressionante. Il Fondo monetario internazionale, infatti, ha stimato che «i proventi riciclati a livello mondiale si attestano ogni anno tra il 2 e il 5 per cento del Pil mondiale». Il volume degli affari illegali – considerando anche il cybercrime – ammonta «a circa 12 trilioni di dollari, pari al Pil di Andorra e Monaco».
I mafiosi navigano diffusamente su internet «grazie a piattaforme criptate e al dark web» – la zona più oscura del deep web, inaccessibile ai normali motori di ricerca – e gestiscono pure siti di scommesse e giochi online, utili alla «ripulitura del denaro su vasta scala». Il riciclaggio avviene «tramite operazioni finanziarie spesso sofisticate» che dirottano i soldi verso i settori dell’economia legale con investimenti apparentemente regolari. I clan, inoltre, ricorrono frequentemente alle blockchains (maxi-database crittografati) e comprano criptovalute per «schermare i proventi delle varie attività illecite».
Una criminalità sempre più digitalizzata
Le associazioni a delinquere, quindi, si sono adeguate alle nuove tecnologie e «tendono sempre più a digitalizzarsi». Si stanno moltiplicando, ad esempio, gli attacchi informatici contro aziende, istituzioni e utenti privati: il cybercrime più praticato è il ransomware, che consiste nel «furto di dati sensibili con richiesta di riscatto». I clan hanno imparato a usare anche l’intelligenza artificiale «per automatizzare attacchi informatici, come il phishing e il vishing», nonché a manovrare da remoto i droni per colpire i rivali.
Sta diventando molto difficile per le forze dell’ordine intercettare le telefonate dei boss. Essi, infatti, sono ormai in grado di «creare canali di comunicazione sicuri» all’interno del dark web e nelle conversazioni private si servono dei criptofonini, ossia gli «smartphone dotati di particolari sistemi di cifratura che li rendono potenzialmente inviolabili» (vedi Criptofonini: cosa sono e come funzionano).
Ma l’Ue intende davvero combattere le mafie?
L’enorme disponibilità di denaro liquido – «pari all’8-10 per cento del Pil mondiale» – consente alla grande criminalità di «corrompere e influenzare i sistemi politici e amministrativi», nonché di foraggiare «l’economia legale attraverso processi di riciclaggio e investimenti strategici». La mafia, dunque, ha stretto un torbido legame con ampi settori della finanza e della politica internazionale, diventando «una cosa sola con ogni forma di potere deviato».
Gli autori – in conclusione – avanzano alcune proposte per arginare la malavita organizzata, almeno nella Ue. Essi auspicano, innanzitutto, «una rapida approvazione della nuova Direttiva europea sulla lotta contro la corruzione» e, in seguito, la creazione di «organi investigativi comuni e permanenti». Ritengono, infine, indispensabile non ostacolare con ambigue riforme giudiziarie «chi ancora cerca di combattere questo fenomeno silente». Ci sembra, tuttavia, evidente che l’attuale classe dirigente del Vecchio continente – nonostante le dichiarazioni di principio – non voglia veramente debellare i clan mafiosi.
Le immagini: la copertina del libro di Gratteri e Nicaso; a uso gratuito per Pexels (autori: RDNE Stock project; Charlie Jin; Mart production) e Pixabay.
Giuseppe Licandro
(Pensieri divergenti. Libero blog indipendente e non allineato)