Fra “camp” e carenza di autostima, Madonna si cimenta nuovamente come regista nel film “W.E. – Edward & Wallis”, presentato allo scorso Festival di Venezia
Due storie speculari, un personaggio storico discusso e una regia naïf per l’ultimo film che vede Louise Veronica Ciccone, in arte “Madonna”, impegnata dietro la cinepresa: W.E. – Edward & Wallis. Ovvero, quando non tutte le ciambelle riescono col buco… nemmeno alla regina del pop!
La storia è ormai nota: in un’Europa mutevole, fra un’economia stentata e un mondo al bivio fra la follia nazista e l’ignavia della comunità internazionale, Edoardo VIII abbandona la corona per sposare l’amante Bessie Wallis Warfield, meglio conosciuta come Wallis Simpson. La coppia, insignita del titolo ducale di Windsor da Giorgio VI e tenuta a distanza dalla saggia Elizabeth Bowes-Lyon e dagli stessi organi politici, viaggerà fra le Bahamas e la Francia avvolta da un alone di perversione, glamour e nazifascismo, in un vortice di scandali ai quali il popolo inglese non farà mai l’abitudine, preferendo una monarchia riservata di cui Elisabetta II rimane l’incarnazione. Wallis tornerà a Londra nel 1972 per i funerali del marito, ospite a Buckingham Palace, e si spegnerà nel 1986 nella sua residenza francese nel Bois de Boulogne.
La Ciccone costruisce una pellicola vivace, presentata al Festival di Venezia del 2012, che non sempre però attraversa acque favorevoli nel mare della critica. La storia inizia da lontano e la regista, forse temendo l’effetto da romanzo d’appendice, propone un inizio anomalo: una ragazza di New York – che, manco a dirlo, di nome fa Wally (Abbie Cornish) – vive in balia di un marito violento e sviluppa per la duchessa di Windsor (interpretata da Andrea Riseborough) un’ossessione filologica: frequenta un’asta di Sotheby’s che espone alcuni suoi cimeli, legge biografie sulla sua figura e crea un mondo immaginario fatto di specchi. La specularità fra le due donne, che sembra rimandare a Malombra di Antonio Fogazzaro, propone allo spettatore doppie visioni piuttosto banali, come l’immersione in una vasca, ottenute con accorgimenti naïf quali il semplice montaggio. Forse un’occasione sprecata per proporre una follia vera.
Al centro del film non sembra tanto esserci il rapporto fra una donna in difficoltà e un personaggio ormai mitico e nemmeno quello – trito e ritrito – fra i duchi di Windsor, quanto il legame tormentato fra un uomo e una donna che, alla fine, risulta essere il più credibile. Per quanto rimanga sottesa, questa tematica dualistica di unione-opposizione, contenuta in nuce all’interno della relazione di coppia, appare l’unica davvero appartenente a Madonna: da lei sentita in quanto americana di origine italiana, reiteratamente moglie o compagna e, a quel che si dice, madre realizzata. La coppia e il doppio risiedono, dunque, al centro del lavoro cinematografico della Ciccone: già lo erano stati fin dal film Sacro e Profano, diretto nel 2009, che però si accontentava di un terreno più florido per l’artista, più vicino al film Cercasi Susan disperatamente di Susan Seidelman, che nel 1985 la lanciò come attrice.
La regia, che racconta di un rapporto immaginario fra due personaggi storici, propone al pubblico una coppia ibrida fra il pop, il gossip e l’agio borghese. La sceneggiatura appare confezionata per impressionare lo spettatore: in una scena, la protagonista esclama sentenziosamente, avvolta dal camp più assoluto: «Vivi la vita. Non permettere che gli altri ti neghino la felicità». Frasi che potrebbero far venire la pelle d’oca a una Delia Fiallo, autorevole sceneggiatrice cubana di telenovelas, e che, nell’estate torrida alle porte, potranno essere d’aiuto a qualcuno…
La fotografia, di Hagen Bogdanski, accurata e tendente al ceruleo, domina la pellicola, la nobilita e in definitiva ne cancella, per quanto possibile, le pecche. Il primissimo piano dell’occhio femminile che piange sembra uno dei momenti più alti del film, mentre l’eleganza generale delle mises restituisce un periodo storico che, dal punto di vista cinematografico, si porta dietro la lezione di Evita. La carrellata di oggetti appartenuti alla Simpson, vero e proprio inno al lusso inteso come prodotto di design, sembra scaturire da un occhio attento alla moda, appare perfetto se chiuso in se stesso, ma, collocato all’interno della pellicola, risulta scorporato, quasi ci si aspettasse la comparsa di uno spot televisivo. Uno spot che non arriva, lasciando però la sgradevole impressione di esserci stato senza la dovuta luce a sottolinearlo.
A curare le musiche l’abile Abel Korzeniowski, compositore polacco già premiato per il film A Single Man di Tom Ford. Tuttavia, manca alla pellicola una musica distintiva che riesca a sottolinearne i momenti importanti. Si sente il pop che cerca di irrompere e che ogni volta viene sconfitto dall’ossessione borghese della Ciccone per il cinema d’autore. Di tutto questo lei non ha bisogno: come si sa, riesce in tutto, forse tranne che nell’autostima, dal momento che in un’intervista a Radio Times dichiara di avere molto da imparare. Un piede messo in fallo, che una Lady Gaga qualsiasi non avrebbe fatto. Il potere delle nuove generazioni, infatti, consiste proprio in questo: andare preparati nel mondo con la coscienza di ciò che si è. Born this way!
Le immagini: locandine del film.
Matteo Tuveri
(LucidaMente, anno VII, n. 79, luglio 2012)
Caro Tuveri, leggo seguo sempre i Suoi articoli e rinnovo anche stavolta la mia grande stima per Lei. Scrive in un modo così appassionante che suscita nei lettori il desiderio di approfondire le tematiche da Lei trattate! Grazie per il suo contributo e a presto.
Una critica seria e non un attacco o una beatificazione forzata. Come invece di solito succede in giro. Un bel leggere, complimenti!