L’estate era cominciata precocemente. Come ogni anno.
Alcuni erano già partiti per la colonia marina.
Noi ci preparavamo per il saggio.
Ci allenavamo ad indossare quel maledetto cinturone bianco incrociato sul petto con al centro la emme di metallo.
Ci chiamavano, chissà perché, figli della lupa. I più grandicelli provavano e riprovavano il rullo dei tamburi e a soffiare dentro le trombe lucenti. Toccava a loro aprire la sfilata. Poi venivano i balilla moschettieri, i più fighi, coi fazzoletti azzurri e i moschetti quasi veri.
Quel giorno la maestra, tutta rossa, accaldata a causa della sahariana nera che aveva indossato per darsi contegno, ci disse che l’indomani, tutti in divisa, dovevamo affluire, come si diceva allora, in piazza.
Il duce, aggiunse, ci voleva parlare.
Il duce era quel fascista dagli occhi tondi e l’elmetto, che ogni mattina trovavamo sempre arrabbiato attaccato al muro dietro la cattedra.
A casa i genitori parlottavano sottovoce. Sospettai che qualcosa fosse avvenuto o dovesse avvenire. Come quando morì il nonno, che tutti si guardavano negli occhi e stropicciavano i piedi senza saper che dire.
Mia madre mi mise a letto, e sotto le lenzuola sentii come un singhiozzo. Mia madre era bella, forte, prosperosa. Insegnante di ginnastica nel Trentotto aveva portato a Roma per il saggio ginnico al Foro Mussolini le sue ragazze, che avevano suscitato l’ammirazione di Lui.
Lo ricordò per anni e ripeteva spesso: “Sapessi che figurone. Quanto erano belle quelle ragazze, fiere siciliane del profondo Sud!”.
L’indomani arrivò presto.
La piazza era già stracolma quando giungemmo anche noi, tenendoci per mano. In un angolo, un folto gruppo di signori cantava con voce rauca “Giovinezza, primavera di bellezza”, erano quelli che avevano fatto la Marcia, indossavano la divisa nera col gallone rosso.
Al centro c’erano i ragazzi col fazzoletto azzurro e la camicia nera. Erano i più agitati. E ogni tanto gridavano “Alalà” e alzavano i fucili.
Le donne – bambine, ragazze e signore – erano tutte in camicetta bianca e gonnellino nero.
Ad un tratto alzai gli occhi. In cima alla torretta, che mi parve altissima contro il cielo terso, vidi quattro grandi altoparlanti. Dentro quelle trombe qualcuno gridò “saluto al duce” e subito le parole cominciarono a calare su di noi. Prima lentamente, come foglie di un autunno fuori del tempo.
“Combattenti, di terra, di mare, dell’aria. Camicie nere della Rivoluzione, uomini e donne d’Italia, dell’Impero, di Albania, ascoltate!”.
Ci predisponemmo ad ascoltare, mentre tutti intorno gridavano e brandivano moschetti.
“Ancora una volta l’ora segnata dal destino batte per la nostra patria: l’ora delle irrevocabili decisioni”.
Erano parole che facevano impressione, anche se le comprendevamo in parte.
Poi, giù una grandinata che si confuse con le grida di vittoria, viva e alalà.
“Da domani, 10 giugno dell’anno diciottesimo dell’Era fascista, faremo guerra alle democrazie plutocratiche dell’Occidente, Inghilterra e Francia”.
Evviva.
“Con voi, il mondo intero è testimone che l’Italia fascista ha compiuto durante lunghi anni tutto quanto era umanamente possibile per evitare la tormenta che sconvolge l’Europa… Bastava rivedere il Trattato di Versaglia e non pretendere di conservarlo intatto per l’eternità… Bastava non iniziare quell’infausta e stolta politica delle garanzie che si sono rivelate micidiali per quanti le hanno accettate… Noi impugniamo le armi perché intendiamo spezzare le barriere territoriali e militari che ci soffocano nel nostro mare: perché un popolo di 45 milioni di anime è libero soltanto se ha libero accesso all’oceano!”.
Cominciammo a non capire più nulla, tanto era il chiasso.
“L’Italia proletaria e fascista balza ancora una volta in piedi, fiera come non mai. La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti e già essa trasvola dalle Alpi all’Oceano Indiano: vincere! E vinceremo per dare finalmente pace colla giustizia all’Italia e al mondo!”.
Queste, più o meno, furono le parole che riuscimmo a cogliere, precipitate giù dalla torretta. Alla fine le grida gradualmente si spensero. Ciascuno cominciò a pensare ai fatti propri.
I genitori vennero a prenderci e ci portarono a casa.
Era la prima volta che vedevo mio padre con la divisa di funzionario dello stato in disordine. Povero papà, ci teneva molto a quell’uniforme che si era conquistata con grandi sacrifici.
Quella sera, scuro in volto, mi trascinava verso casa stringendomi forte la mano nella sua.
Questa fu l’entrata in guerra del 1940 per le famiglie italiane.
Poi, nei giorni e nei mesi che seguirono, ognuno ebbe una sua storia.
(1940: l’entrata in guerra)
Giuseppe Salmè
Giornalista pubblicista e scrittore, l’autore è nato nel 1928 a Vittoria, in provincia di Ragusa; vive a Palermo.
IL COMMENTO CRITICO
“Poi ognuno ebbe la sua storia”: gli occhi di un bambino fotografano l’annuncio dell’entrata in guerra dell’Italia fascista.
Come in un filmato amatoriale, ci passano davanti le immagini che i libri di storia ci hanno consegnato: le esercitazioni paramilitari nelle scuole, le divise ordinate, le maestre di ginnastica un po’ invasate, le piazze affollate e gli altoparlanti con la voce del duce.
Chi era il duce?, pare chiedersi il giovane protagonista di questo bel bozzetto narrativo. E l’unica risposta che trova convincente è: il duce era quel fascista dagli occhi tondi… che sta attaccato al muro dietro la cattedra!
Così, gli anni del consenso, delle folle acclamanti e trionfanti di slogan sembrano sbiadire per lasciar posto ad una immagine un po’ irriverente di un ometto con gli occhi tondi e corrucciati che ha trascinato un paese alla guerra.
Le rapide tappe della formazione di una coscienza critica – Cresciuto in una famiglia e in un contesto chiaramente fascista, il giovane figlio della lupa compie in quella lontana giornata una sorta di cammino con alcune tappe che vale la pena sottolineare: l’inconsapevolezza iniziale (non sa infatti bene perché a loro sia dato il nome di figli della lupa); la corretta identificazione del gruppo di coloro che avevano fatto la marcia e dunque si sentivano parte attiva e determinante di quel momento storico; l’enfasi delle parole pronunciate dall’alto e accolte da una folla chiassosa che, certo, non è in grado di comprenderle a pieno; infine la reazione del padre che, con quella divisa in disordine, la faccia scura e la mano stretta forte attorno a quella del figliolo, sembra aver capito ad un tratto quello che sta per succedere. Breve ma lucido e intenso, il racconto abbandona sul finale lo sguardo del bambino che si fa adulto in quel riconoscere che, negli anni successivi, ognuno avrà la sua storia.
Angela Verzelli
(LucidaMente, anno I, n. 2, marzo 2006)