Le chiavi interpretative per la lettura del nuovo libro di Rino Tripodi: “Il mistero dell’Impero Azzurro“
Se, esattamente a un anno di distanza (il mese è sempre dicembre), lo stesso autore (Rino Tripodi) pubblica prima un libro sulfureo, provocatorio, iconoclasta, come Decomposizione di Dio. Un racconto e cento apologhi gnostici tra Kafka e Cioran (inEdition editrice/Collane di LucidaMente, 2008, pp. 104, euro 12,00), e dopo una fiaba quale Il mistero dell’Impero Azzurro (inEdition editrice/Collane di LucidaMente, 2009, pp. 76, euro 12,00), può sorgere il dubbio che non si tratti dello stesso scrittore o che si sia “convertito” – se non altro come tipo di scrittura – o che gli abbia dato di volta il cervello.
In realtà, come vedremo, nonostante le evidenti diversità di genere (dal racconto e dagli apologhi filosofici alla fiaba) e di destinatario (da un lettore colto e “sofisticato” a dei ragazzini), restano alcune costanti narrative e persino tematiche, nonché alcuni topoi anche stilistici.
Una vicenda lineare
La storia narrata ne Il mistero dell’Impero Azzurro appare sì enigmatica, ma abbastanza lineare a livello di svolgimento: fabula e intreccio coincidono, non vi sono flashback, ellissi, o altri scompigli nel ritmo della narrazione, che procede ordinata, quasi schematica.
Eccola, in sintesi (ovviamente, non anticipiamo nulla di essenziale delle “sorprese” e delle rivelazioni del libro):
1. Mr Mister, ragazzino-agente segreto, viene incaricato dai notabili del triste e incivile Regno Grigio di scoprire il segreto della gioia e della prosperità del vicino Impero Azzurro;
2. Giunto nel Paese oggetto dell’indagine, il protagonista viene accompagnato via via da altri tre agenti (MENO, PIU’ e UGUALE) che gli fanno visitare le varie realtà dell’Impero;
3. Quando ormai ritiene che il mistero sia irrisolvibile, finisce casualmente per scoprirlo;
4. Torna nel Regno Grigio.
Tre “dimensioni”… e tre esempi della crisi dell’uomo contemporaneo
Leggendo il libro, si può notare che i tre agenti, che conducono Mr Mister in giro per l’Impero, lo accompagnano via via ciascuno in tre dimensioni diverse:
1. La scienza, anche se sui generis, vicina a magia, alchimia, esoterismo;
2. L’arte, quasi sempre bizzarra;
3. La natura, incantata, prodigiosa, sfavillante.
I tre agenti, peraltro, rappresentano tre incarnazioni negative dell’odierna umanità:
1. MENO è il nevrotico, l’ansioso, l’ipocondriaco, sovrastato dalle proprie paure interiori che lo immobilizzano;
2. PIU’ è obeso, rappresenta la persona volgare, insolente, irridente, incapace di cogliere la bellezza insita nella creazione artistica;
3. UGUALE è malvagio, violento, truce, infido, maligno, subdolo.
Il MENO sta a indicare l’uomo sminuito nel proprio valore, il PIU’ un’umanità prepotente, incapace di vivere in armonia e nel rispetto del prossimo, UGUALE potrebbe significare nullità, negatività.
È un caso che il primo sia accostato alla scienza, il secondo all’arte e il terzo alla natura? Forse no.
MENO è una vittima dello scientismo – perversione della scienza -, tanto preso dalle moderna nevrosi della medicina e della salute perfetta da sentirsi sempre ammalato («Mi fa male la testa, mi fa male la pancia, mi fanno male gli occhi, mi fa male il collo, mi fa male il fegato, mi fa male la schiena…»); PIU’ considera l’arte e la bellezza come stupidaggini, non è in grado di coglierne il piacere estetico, si imbottisce di beni materiali («Guarda quanti perditempo! Ah, ah!», e intanto si serviva abbondantemente dai tavoli imbanditi, mettendosi pure qualche tramezzino in tasca). UGUALE0 è l’uomo tecnologico, che non riesce più a entrare in contatto con la natura, ad ammirarla, a rispettarla, anzi ne è talmente spaventato da volerla abbattere («Io distruggerei tutta l’isola con un paio di bombe», afferma riferendosi alla bellissima isola di Landahar).
Tutti e tre non concepiscono una società armoniosa, misurata, civile, perché sono proprio loro a non riuscire più a entrare in contatto con gli altri, ponendo rispettivamente di volta in volta barriere quali l’ansia, la volgarità, la sopraffazione.
Un racconto a chiave? Possibili interpretazioni
Il mistero dell’Impero Azzurro è un libro che, al di là del mistero che sarà svelato alla fine, con un didascalico elogio della dimensione della fantasia e dell’immaginazione sulla bruttezza della realtà e della “normalità”, potrebbe anche essere inteso come un racconto a chiave che il lettore può sciogliere.
Inizialmente, infatti, sembra che ci troviamo di fronte quasi a una satira politico-sociale: le autorità del Regno Grigio sono prepotenti, aggressive (il capo dei servizi segreti si chiama “Rapax”); Mr Mister, giunto nell’Impero Azzurro, è colpito, per contrasto, da «la pulizia che regnava per le strade, l’ordine, il silenzio, la cortesia dei cittadini. Per le strade di Solaris non vi erano maleducati, ad esempio automobilisti che suonavano il clacson per frastornare gli altri o che guidavano in modo pericoloso. Tutti erano sereni e disciplinati. Per strada incontrarono tanta gente sorridente, gentile, allegra».
Quale Paese, odierno e reale, è caratterizzato, come il Regno Grigio, da autorità corrotte e inefficienti, e comunque poco attente al cittadino, servizi segreti deviati, convivenza civile problematica, sporcizia per le strade cittadine, indisciplina e maleducazione imperanti? Indovinate un po’ voi…
Vi sono, però, altri indizi sparsi (ad esempio, i tre agenti, che ricordano a Mr Mister tre figure incontrate da lui realmente nella realtà quotidiana, o la sua decisione finale) che ci fanno proporre due ulteriori interpretazioni, peraltro tutte da verificare:
1. La vicenda è tutta il sogno di un ragazzino;
2. Un ragazzino in difficoltà con la propria famiglia (“Il Regno Grigio”) e con l’ambiente circostante (i bulli?; adulti sgradevoli?) cerca rifugio nella dimensione fantastica, alla quale vuole ritornare il più presto possibile (si veda la lunga enumeratio finale di pensieri, emozioni, desideri, giocattoli, oggetti, personaggi da romanzo, appartenenti al mondo dell’infanzia).
Malinconia, e limitatezza dell’arte, con ironia
Dicevamo all’inizio delle evidenti analogie con l’altra opera di Tripodi, Decomposizione di Dio, in apparenza così diversa.
Innanzi tutto i due libri sono dominati dalla malinconia: si avverte costante la sensazione di una perdita irrecuperabile (l’innocenza?, la purezza?, il paradiso perduto?), la nostalgia per una bellezza assoluta ma irraggiungibile. Nel racconto (Il pellegrinaggio ad Atar’sh) che occupava metà della scorsa pubblicazione, tale ricerca costituiva l’obiettivo di un viaggio lungo e doloroso; anche Il mistero dell’Impero Azzurro è tutto incentrato su una ricerca, su una quête, che, però, spesso viene disillusa, come capita a “Umboldt, archeologo sfortunato”, che scorge dall’alto le meravigliose rovine di una civiltà scomparsa, ma poi non riesce a ritrovarle.
Tuttavia, la disillusione maggiore tocca all’arte: Urqart, “l’inventore della neolingua”, progetta gialli complicatissimi mai pubblicati, mentre il poeta Amand compone poesie dal titolo più lungo del testo. In particolare il capitoletto “Ohb, lo scrittore delle opere perdute” – che smarrisce il taccuino su cui aveva trascritto il libro più bello del mondo e non ne ricorda più niente, non lo può ricostruire – è molto simile alla breve storia de “Lo scrittore e il Segreto del Mondo” che appare in Decomposizione di Dio: il letterato muore la notte dopo aver compiuto la grande scoperta e la “paginetta con la sua incredibile rivelazione” sparisce.
Insomma, l’arte è una costante aspirazione in direzione della bellezza e dell’assoluto, ma è solo una tensione, un’eterna approssimazione verso una liberazione e una verità irraggiungibili. In ultima analisi, la creazione artistica è impotente: non può cambiare il mondo, non può migliorarlo, può solo dare temporaneo sollievo a un’umanità infelice e sofferente. E la malinconia, come si sa, nasce proprio dallo scontro tra l’aspirazione alla realizzazione e alla felicità e la loro impossibilità: è una sorta di saturnino dono degli dei che ci fanno aspirare alla loro pienezza, forse talvolta – come nell’estasi dell’eros – ce ne rendono compartecipi, ma ci fanno anche capire amaramente che mai la raggiungeremo. La malinconia – come afferma Claudio Magris ne Il valore delle parole (in Tracce, n. 8, 1986) – “non è un ostacolo alla grazia” visto che “il disincanto ha a che fare con l’amore”; diversamente dalla depressione, che è annichilimento e perdita di se stessi.
Né si deve pensare agli scritti di Tripodi come plumbei: gli eccessi delle situazioni e degli scenari immaginati, il suo “scoiattolismo”, lo scardinamento del “realismo”, il suo quasi palazzeschiano sberleffo, sono il risultato di un sorriso e di un’ironia sempre presenti, che rendono le sue opere godibilissime.
Inoltre, il narratore sembra tutto preso da una gioia, quasi infantile, della multisensorialità, per cui tutti i cinque sensi – e qualcun altro -, destati e stimolati da una curiosità mobilissima, vengono attirati da ogni luce, bagliore, suono, fruscio, sapore, odore, gusto, oggetto tattile…
Visionarietà e fascino per le meraviglie dell’universo
Un’altra caratteristica degli scritti dell’autore è costituita dalla fascinazione per la natura, in particolare per il cosmo.
Nelle opere che stiamo analizzando appaiono paesaggi stupefacenti, allucinati, visionari. Potremmo anzi affermare che la scrittura di Tripodi si sostanzia più di sequenze descrittive che di vere e proprie sequenze narrative.
In Decomposizione di Dio apparivano foreste di ghiaccio, visioni apocalittiche con uccelli che “si schiantano, in massa, sugli scogli nerastri”, miraggi in deserti abbacinanti e infernali, “una costruzione piatta, rettangolare, lunghissima, nera, quasi schiacciata in terra”, “graziose teste di bambola sul fiume”; ne Il mistero si parla di galassie, di nebulose, di stelle, del “suono dello spazio cosmico”, ci imbattiamo in “enormi, ignoti uccelli” (“con due paia di ali. Erano di colore celeste, con teste bianche bianche. Il loro volo era maestoso e sicuro”), in un lago piccolissimo quanto a dimensioni, ma dalle acque “più profonde del mondo”, leggiamo di funghi luminosi disseminati nel sottobosco, o di un sole che sorge e tramonta “tre volte in pochi minuti”.
Si perviene, così, a una visione attonita del mondo, a una stupefazione, a metà tra contemplazione ed estatica meditazione trascendentale: un piacevole/inquietante – sempre straniante e straniato – intreccio di labirinti, una enigmatica danza di scenari irreali entro incroci sterminati di microcosmi, un gioco anomalo di riflessi esoterici, un ermetico accumularsi di segnali mistici e surreali.
Il culto della letteratura
Infine, in entrambe le opere di Tripodi si avverte quell’impegno verso la qualità della scrittura, quel lavoro certosino di scelta lessicale, attento pure a livello del suono, quella cura della disposizione sintattica, anche per ottenere effetti ritmici, quasi da “prosa poetica”, quel culto della letteratura che, come ha scritto Giorgio De Rienzo sul Corriere della Sera (11 dicembre 2009), «appartengono al secolo scorso, non solo per la formazione culturale, ma soprattutto per quel senso sacrale della scrittura e quel rispetto profondo del lavoro letterario, che ormai si sono perduti».
L’immagine: La creazione del mondo – VII (1905-1906), opera del fantastico pittore lituano Mikalojus Konstantinas Ciurlionis (Varna, 22 settembre 1875 – Pustelnik, 10 aprile 1911), che illustra la copertina della fiaba di Rino Tripodi.
Maria Gaudiano* e Francesca Gavio
* Maria Gaudiano dirige la collana Girandole luminose, nel cui ambito è stato pubblicato Il mistero dell’Impero Azzurro di Rino Tripodi.
(LucidaMente, anno V, n. 53, maggio 2010)