Intervista all’autore de “La rivolta di Reggio” per capire un evento troppo “dimenticato”
Sono ormai trascorsi esattamente trentanove anni dalla lunga sommossa di Reggio Calabria, esplosa a metà luglio 1970 e protrattasi fino a settembre 1971, con il surreale intervento – di impronta quasi sovietica o da dittatura militare fascista – dei carri armati dell’esercito italiano nel febbraio dello stesso anno. A proposito di tale insurrezione, lo scorso 12 maggio, nell’aula “Lucio Gambi” del Dipartimento di Discipline storiche dell’Università di Bologna, lo storico Luigi Ambrosi ha presentato il suo ultimo lavoro: La rivolta di Reggio. Storia di territori, violenza e populismo nel 1970 (Rubbettino, pp. 320, € 19,00), con Prefazione di Salvatore Lupo – opera di cui si parla anche nell’articolo di apertura dell’attuale numero di LucidaMente.
Alla fine della conferenza, durante la quale sono intervenuti Alberto De Bernardi e Stefano Cavazza, l’autore del libro ci ha gentilmente rilasciato un’intervista, con la quale abbiamo cercato di approfondire le radici dei “moti reggini” e la sua contestualizzazione storica in una Calabria e in un’Italia profondamente scossa e “minacciata” dalle agitazioni sociali.
La rivolta di Reggio nasce da rivendicazioni campanilistiche/localistiche da parte della popolazione reggina. Perché è così importante? Perché vale la pena raccontarla, studiarla e cercare di capirla?
«Uno degli obiettivi, forse il più importante, del mio libro è quello di dimostrare che la rivolta di Reggio Calabria del 1970 non è riconducibile a uno scenario di mera arretratezza, non è solo il risultato di ataviche problematiche reggine, calabresi e meridionali, ma un evento in cui si condensano processi storici pienamente dispiegati nel nostro presente. Un punto di partenza più che un punto di arrivo di determinati fenomeni storici. Anche oltre la specificità geografica degli avvenimenti, vale a dire i processi storici che interessano oggi più di ieri l’Italia intera e anche oltre. A questa impostazione è stato dovuto l’interesse che la mia ricerca ha suscitato anche all’estero, in occasione di un workshop sul post Sessantotto tenuto all’Università di Paris X-Nanterre nell’ottobre 2008. D’altra parte la dimensione territoriale dei processi storici e categorie come quella di “localismo” sono più praticate in Francia e nel resto d’Europa che non nel nostro Paese. La rivendicazione del titolo di capoluogo regionale da parte reggina si inserisce infatti in una competizione tra territori, in una disputa multilaterale tra le maggiori città della Calabria, per accaparrarsi risorse e opportunità di sviluppo offerte dal governo e dagli organi centrali. Un aspetto piuttosto attuale in epoca di globalizzazione. In questo scenario si cristallizzano vari localismi contrapposti, dove per localismo – senza implicare alcun giudizio di merito – si intende, secondo la definizione fornita dal sociologo Ilvo Diamanti, una posizione ideologica in cui “la specificità del contesto locale costituisca la premessa oppure il riferimento per l’identità e per la rivendicazione in ambito politico”. In quest’ottica, il localismo è distinguibile dal campanilismo, definito invece dallo storico Stefano Cavazza “un sentimento spontaneo riconducibile alla dinamiche di contrapposizione tra piccole comunità”. Reggio era invece una città di più di 160 mila abitanti nel 1970, in cui l’elaborazione di un’identità locale aveva bisogno di un processo più complicato, fatto di costruzione di valori e miti mediante pubblicazioni e circuiti mediatici di una certa ampiezza».
Si può affermare che i “fatti di Reggio” sono uno straordinario esempio di rivolta apolitica e puramente popolare?
«Tutti coloro che promossero la rivendicazione del capoluogo, sin dalla sua comparsa negli anni Quaranta, cercarono di costruire un fronte trasversale dal punto di vista ideologico e sociale, potremmo anche dire “apolitico”. Gli amministratori democristiani in primis definirono “senza colore” il motivo originario della rivolta, ma ciò è riconducibile a una forma di retorica e di ideologia, populista, che si riferiva a un popolo, quello reggino, come unità organica indistinta, su base territoriale, contrapposta alle élite che volevano penalizzarlo. Ciò conteneva indubbiamente elementi di verità, ma furono proprio quelle élite a essere protagoniste primarie della rivolta e la mobilitazione popolare scaturì solo di conseguenza e per l’intreccio di molteplici fattori. Dopo mesi di silenzi e rinvii, di promesse non mantenute e di conclamata incapacità decisionale da parte della classe dirigente nazionale, i toni “apolitici”, se non addirittura “antipolitici”, divennero egemoni nei comitati cittadini che gestivano e indirizzavano l’azione collettiva. Dunque, “apolitica” e “popolare” sono due aggettivi che possono richiamare alcuni caratteri della rivolta ma, come per ogni fenomeno sociale, sono soprattutto frutto della sua rappresentazione e auto-rappresentazione e perciò vanno sottoposti a indagine critica».
Lei si rifiuta di considerare questa rivolta come il Sessantotto del Sud. In quegli anni, tuttavia, le sommosse e le proteste erano un serio ed efficiente strumento per partiti e rappresentanze per mostrare e sottolineare determinati disagi. Oggi i problemi non sembrano attenuarsi, tantomeno in Calabria. La rivolta sarebbe ancora un atto storicamente “possibile”?
«Non è certo prevedibile una protesta di migliaia di persone, come quella di Reggio Calabria del 1970-71. Proprio quella ribellione dimostra che non basta la presenza di forti disagi economici e sociali per far scaturire causalmente e necessariamente una mobilitazione collettiva. Anzi, i problemi erano profondi già da diversi decenni prima del 1970, senza però che provocassero alcuna conflittualità. Probabilmente, invece, furono proprio le speranze suscitate dal boom economico degli anni Sessanta, in particolare la scolarizzazione di massa e la crescita dei consumi, a creare le condizioni per l’esplosione di collera collettiva! Questi sono aspetti che accomunano la rivolta di Reggio al fenomeno Sessantotto, nei presupposti però e non negli svolgimenti. Diversi sono i soggetti, diversi gli obiettivi e dunque la natura stessa dei movimenti. Non basta la similitudine delle forme, mobilitazione di piazza con sit-in e/o barricate, a identificare fenomeni costitutivamente differenti. Ma certo la rivolta di Reggio può trovare posto legittimamente in quella che è definita la “stagione dei movimenti” o l'”epoca dell’azione collettiva”, di cui il Sessantotto è parte importante ma non esaustiva».
Rivolta uguale repressione. Repressione uguale morti. In nessun altro posto, come in Italia, queste equazioni risultano necessarie. La cattiva gestione da parte delle forze di polizia e del governo nel nostro Paese sono una ricorrenza ormai nota, che parte dagli albori della nostra nazione, passa per i fatti di Reggio e arriva ai nostri giorni (vedi il G8 a Genova nel 2001). Da cosa deriva questa tendenza? Può considerarsi un elemento caratterizzante della “cultura” politico-sociale italiana?
«Certo fu proprio la sproporzionata e contraddittoria gestione dell’ordine pubblico durante le prime manifestazioni del luglio 1970 a innescare ed estendere la mobilitazione collettiva. Dopo le manganellate e gli arresti decisamente poco mirati molti reggini cominciarono a chiedersi che cosa rappresentasse per loro il capoluogo. Ma la rivolta di Reggio fu un evento straordinariamente complesso e contraddittorio sotto questo punto di vista, come nessun altro nella storia d’Italia, per molteplici fattori: l’utilizzo simultaneo di molotov, armi da fuoco e talvolta esplosivo in azioni di guerriglia da parte dei manifestanti; il “sangue freddo” dimostrato dalle forze dell’ordine in occasioni di assedio, alla questura ad esempio il 18 luglio 1970; la richiesta di ordine proveniente dal Partito comunista e dalla sinistra e quella di rispetto delle libertà costituzionali da parte di moderati e fascisti! Ho dedicato un lungo capitolo specifico del libro a questo aspetto, caratterizzante i “moti reggini”, giungendo alla conclusione, parziale e meritevole di ulteriori approfondimenti, che la tendenza a esasperare i conflitti di piazza piuttosto che a sedarli sia certo un “vizio” della prassi degli apparati polizieschi ma che la responsabilità maggiore di questo atteggiamento ricada sui governi, la classe dirigente – nel caso di Reggio di maggioranza e d’opposizione -, incapace di risolvere altrimenti i problemi. La polizia è chiamata a colmare dei vuoti politici…».
I fenomeni di localismo e di indipendentismo e le richieste di autonomia amministrativa sono una tendenza in continuo aumento. Tanto al Nord, quanto al Sud. Tanto in Italia, quanto in Europa. È giusto assecondarle o devono essere considerate un pericoloso incidente storico che ostacola il percorso verso una società senza barriere?
«La valorizzazione di una dimensione locale dell’agire sociale e politico, di cui si sente parlare sempre di più oggi, in epoca di globalizzazione, è un’arma a doppio taglio. Può creare circoli virtuosi, di crescita economica e diffusione del benessere, come, ad esempio, i distretti industriali del Centro-Est, di maggiore controllo politico dei cittadini, come nel caso di amministrazioni municipali che sperimentano processi decisionali diretti e partecipativi, di miglioramento della qualità del consumo e della vita attraverso un più stretto rapporto tra produttori agricoli e consumatori. Ma può anche creare circoli viziosi, con chiusure culturali in grado di nutrire sentimenti razzisti, con moltiplicazione esponenziale di enti e relative cariche parassitari (le province, che continuano ad aumentare mentre qualcuno vorrebbe giustamente abolirle!), con una competizione sfrenata che crea sempre nuovi e più gravi squilibri. Il crinale è talvolta molto labile ma è una delle più grandi e affascinanti sfide del futuro, non certo un residuo del passato».
L’immagine: lo storico Luigi Ambrosi e il suo libro.
Simone Jacca
(LucidaMente, anno IV, n. 42, giugno 2009)